NEIL YOUNG (After The Goldrush)
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  Recensione del  30/04/2004
    

After The Goldrush è il disco più bello di Neil Young. L'ho sempre pensato e, riascoltandolo per questo breve articolo, mi convinco sempre di più. Il successo su larga scala, a parte la parentesi con Crosby Stills Nash & Young, sarebbe arrivato due anni dopo con Harvest ma Goldrush rimane più puro, vero, profondo. Un disco di una bellezza disarmante dove troviamo undici canzoni, nove classici, una cover ed una piccola gemma.
Che il 1970 sia stato un grande anno per il rock 10 dimostrano i grandi dischi usciti in quel periodo temporale, e Goldrush rimane uno dei migliori episodi. Lasciati i Buffalo Springfield, Young era già arrivato al suo terzo album dopo 11 discontinuo esordio e l'eccellente Everybody Knows This is Nowhere. Goldrush sta tra il rock di Everybody Knows e le ballate folk pastorali che lo stavano rendendo celebre (già un assaggio di questo stile c'era su Deja Vu, con Helpless e Country Girl).
Usando i Crazy Horse e il diciassettenne Nils Lofgren (per lo più al piano), Young infila una serie di canzoni memorabili: la protest song Southern Man, una jam song che avrebbe avuto grande fortuna, e le indimenticabili After The Goldrush, Tell Me Why, Only Love Can Break Your Heart, Till The Morning Comes, Don't Let it Bring You Down, Birds e When You Danze You Can Really Love. Rilegge poi alla sua maniera anche il classico country Oh Lonesome Me di Don Gibson (Gibson è scomparso solo qualche mese fa). Un disco che, riascoltato oggi, risulta ancora più bello ed intenso.