MARAH (20.000 Streets Under The Sky)
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  Recensione del  08/08/2004
    

I Marah sembrano esistere per dimostrare la consistenza di alcuni rock'n'roll clichés. Ovvero: i primi dischi sono sempre i migliori (ed effettivamente la magia di Kids In Philly sembra irripetibile); con un produttore di grido i risultati sono inversamente proporzionali alle aspettative (e nel disco precedente avevano persino Springsteen alla chitarra); alla fine, rimane soltanto un'etichetta indipendente a darti una possibilità, ed eccoci qui.
Un percorso che non era difficile da prevedere, visti i tempi che corrono: i Marah sono una rock'n'roll band a tutto tondo (per cui è difficile togliere o aggiungere qualcosa e l'esperienza springsteeniana insegna) e in più non ne vogliono sapere di assecondare nessuno e se Dave e Serge Bielanko si mettono in testa qualcosa, state tranquilli che non li smuoverà nemmeno la fine del mondo. È successo all'epoca di Float Away With The Friday Night Gods, l'album precedente, dove, per loro stessa ammissione, cercavano "delle canzoni che stessero bene nel jukebox" e gli era sembrato logico lavorare con lo stesso produttore di Verve e Oasis.
Certe soluzioni non vanno bene per tutti e Float Away With The Friday Night Gods era un passo falso fin dalla copertina (e nonostante Bruce), un tentativo evidentemente fallito di rincorrere una modernità e un'attitudine che non è per niente innata nei Marah. 20.000 Streets Under The Sky risale faticosamente la china e pur arrancando tra una canzone e l'altra è un disco con una sua dignità, soprattutto nel provare a ricominciare, di nuovo.
Purtroppo gli errori di Float Away With The Friday Night Gods, ovvero fidarsi completamente di un produttore, qui vengono ripetuti in negativo perché gran parte di 20.000 Streets Under The Sky meritava un minimo di attenzione in più (e magari con un produttore adatto ai Marah): canzoni con reminescenze anni Cinquanta (Sure Thing, Tame The Tiger), una bella carica quando riscoprono gli intrecci tra i Replacements e i Pogues, le voci sempre rauche e convincenti, qualche ballata qui e là, gli aromi springsteeniani ovunque. Molte idee, spesso una sopra l'altra, e magari questo è un segno di vitalità. Anche tanta confusione, però, e qui non è facile venirne fuori.
Forse sarebbe bastato un produttore consono alle fondamenta rock'n'roll dei Marah, poco attento alla moda e più preciso nella sostanza (Eric Ambel, giusto per fare un nome) a trasformare 20.000 Streets Under The Sky nel vero successore di Kids In Philly, che resta un disco strepitoso e, fin qui, il miglior capitolo della loro storia.