BUCKSWORTH (The Cajon Passages)
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  Recensione del  08/08/2004
    

Esattamente come i classici del country-rock a cui si ispirano senza farne mistero i Bucksworth abbracciano la filosofia di un disco conciso, trenta minuti e una manciata di secondi, dove non si spreca una sola nota e tutto fila dritto con una grazia che non sempre si può riscontrare in altri colleghi più blasonati. Sono otto canzoni piacevoli, senza sbavature, che rievocano i tempi pionieristici in cui il giovane rock'n'roll americano scopriva il culto della strada, sposava il linguaggio elettrico con le suggestioni della campagna e si inventava un intrigante filone artistico ancor oggi portato avanti dalle giovani leve del rock provinciale.
I Bucksworth non possiedono però i tratti ribelli dell'alternative-country, sono piuttosto degli esteti di un country-rock polveroso e ruspante che basa tutto sulla forza della melodia. Ballate gioiose e qualche rock dal passo rurale che attaverso la voce del leader Mark Nemetz, rauca e romantica, acquistano un fascino demodé, impossibile da non apprezzare se si è cresciuti con certe sonorità. Confermata la formazione del precedente, altrettanto valido, Haul Alone, di cui ci eravano occupati un paio d'anni fa, i Bucksworth insistono nel tratteggiare storie da grande West, disseminando il booklet del ed di foto storiche, luoghi magici per l'infanzia di Nemetz, che descrive ferrovie, saloon e ponti tra la California (la band è di casa a Riverside) e l'arido Nevada.
I testi riprendono queste immagini che non restano però semplici testimonianze da cartolina, ma un sincero omaggio alla propria terra, come sottolineato dall'autobiografica Where's My Town, un lentaccio dall'aria bluesy con una slide in lontananza. Spuntano poi l'indolente country di Nevada My Nevada, con l'armonica dell'ospite Jay Egenes, oppure la cadenzata Thank You Las Vegas, con le chitarre (l'ottimo Joe Hill) che macinano un incalzante twangin', un mandolino sullo sfondo (lo stesso Nemetz) ed un perfetto lavoro alle voci.
Un brano solare, scorrevole come la maggior parte delle armonie che la band si inventa: nella swingata How and Where It All Began si ripresenta quell'impronta soul già riscontrata agli esordi, che fa sembrare la musica di Nemetz un incrocio tra il Van Morrison "americano" di Tupelo Honey e i Creedence più campagnoli. Sono d'altronde punti di riferimento inevitabili, il cui peso i Bucksworth si portano sulle spalle senza eccessive preoccupazioni. Non inventeranno nulla, ma sanno scrivere bene: Drop Me Down rispolvera gli Stones influenzati da Gram Parsons, Crystal Chandeliers and Burgundy, con il suo inconfondibile ciondolare honky-tonk è una cover di un brano firmato J.W. Routh, già collaboratore di Johnny Cash nei settanta, Haul Alone e soprattutto la bellissima Kick The Rails due ballate che rotolano pigre sotto il sole del deserto californiano e ci fanno sognare quell'America da "strade blu" che William Least Heat-Moon descriveva magistralmente nell'omonimo libro.