Nell'era dei pensieri deboli, dei dischi usa e getta, delle canzoni che non durano più di tre o quattro passaggi radiofonici, delle dignità svendute al primo spot pubblicitario, l'eccentricità di
Tom Waits assume un significato particolare e su cui è legittimo e, in un certo senso doveroso, spendere qualche parola di più che in una semplice recensione. Anche perché
Mule Variations è un disco estremo, a partire dall'etichetta per cui esce: che sia la Epitaph, cioè un'indipendente con un catalogo prettamente punk a pubblicarlo è un fatto da non sottovalutare perché, sebbene le vendite dei suoi dischi non abbiano mai raggiunto dimensioni milionarie, Tom Waits è un pezzo d'America come possono esserlo Bruce Springsteen, Bob Dylan, Neil Young.
La sintonia tra lui e i ragazzi della Epitaph dimostra che questi ultimi hanno imparato dalla vita nella strada e sui palchi più di tutto quello che i manager delle etichette in cui è passato Tom Waits hanno studiato all'università, ai master, nelle riunioni esclusive e nei coca party. Complimenti, perché oltre ad essere un grande disco
Mule Variations è uno schiaffo morale (nel vero e più esteso senso della parola) al novanta per cento delle persone che gestiscono (male) il music business di oggi.
La questione probabilmente interessa più noi di Tom Waits che però non deve essere rimasto estraneo agli stimoli e alle sensazioni di una scelta del genere e ha tirato fuori un disco bello, importante, coraggioso. Più di
Bone Machine, come
Swordfishtrombones, quasi quanto
Rain Dogs, l'inarrivabile capolavoro, il suo turning point.
Per
Mule Variations non si può parlare altrimenti di svolta perché Tom Waits ha continuato la ricerca dentro un minimalismo sonoro che definire geniale è poco. Alcuni brani sono sostenuti soltanto dalle percussioni e dalla voce, eppure sono perfetti: hanno poco, ma non gli manca niente. In altri il suono delle chitarre è tra i più abrasivi che si sia mai sentito in un suo disco: è come se il Keith Richards di
Union Square (su
Rain Dogs) fosse stato sostituito dai Sonic Youth o da John Zorn. In realtà c'è una schiera di chitarristi, con Mare Ribot in testa, che hanno nomi adatti ad un film noir: Larry LaLonde, Smokey Hormel, Joe Gore suonano note e accordi che sembrano uscire da un coltello a serramanico più che da una Fender o da una Gibson.
Si possono ascoltare i loro graffi in
Big In Japan (e qui c'è anche Les Claypool dei Primus al basso),
Hold On, House Where Nobody Lives, Cold Water (lo stesso Tom Waits alla chitarra), in quell'orgia rumorista che è
Filipino Box Spring Hog e un po' in tutto
Mule Variations. Dove non ci sono le chitarre c'è un sassofono, persino qualche loop, l'armonica di
Charlie Musselwhite (che è strepitoso, ed è incredibile come possano suonare in maniera assolutamente differente dal loro solito i musicisti che incidono con Tom Waits), un piano o un organo che si stagliano sopra l'esoterico tappeto di percussioni che, da
Swordfishtrombones in poi, è il suo territorio di caccia e la sua casa. Tutto suona però affilato e coinciso perché Tom Waits ha ricominciato a cantare modulando la voce e usandola più come strumento, tenendola bene in evidenza tra gli arrangiamenti.
Dentro, e non sopra le canzoni. Il suo caratteristico borbottio c'è ancora, è ovvio, ma non è l'elemento predominante (come succedeva in gran parte di
Bone Machine): le melodie reggono sempre e consentono ogni genere di sperimentazione, anche dal punto di vista del songwriting. Per
Mule Variations Tom Waits ha asciugato al massimo le canzoni che hanno preso la forma di certi blues, mentre le arie sono più folk e non ci sarebbe nulla di strano se Tom Waits si fosse comprato la ristampa dell'Arithology Of American Folk Music.
Su quell'onda i suoni e i versi di
Come On Up To The House, What's He Building?, Chocolate Jesus (sentite un po' Charlie Musselwhite) e, in fondo, di tutto
Mule Variations hanno lo stesso spirito dei vecchi dischi del Delta: sono crudi, estremi, spietati ed evocano paesaggi e fantasmi che nel corso di un secolo non sono cambiati, anzi. È davvero coerente Tom Waits, ai limiti della testardaggine (beh, il titolo vorrà pur dire qualcosa, no?) nell'offrire alla varia umanità che mette in scena nelle canzoni di Mule Variations non la miglior soundtrack possibile, ma la più credibile: scarna, caotica, elettrica, folle. Spiazzante. Anche le sue ballate, e qui ce ne sono di notevoli da scoprire col tempo, hanno un fondo oscuro, malato, come se a suonarle fosse qualcuno tenuto sotto tiro: la tensione resta sempre ai livelli di guardia ed è perché la scelta di Tom Waits è nitida, evidente, irrimediabile.
Non soltanto sul piano estetico, musicale dove Mule Vahations offre idee, canzoni, suoni e soluzioni di cui parlare per un anno intero, ma anche in un'ottica più generale. Se ai bei tempi della lush life con Rickie Lee Jones e Chuck E. Weiss (a proposito, bentornato) Tom Waits si trovava dalla Wrong Side Of The Road, oggi viaggia e racconta la Lowside Of The Road, e si avvia a diventare un personaggio scomodo, ingombrante. Tanto accomodante non lo è mai stato, però l'immagine dell'ubriaco, del vagabondo, del perdente, questo mondo a senso unico (che ha nello show biz uno dei suoi fulcri) la poteva tollerare, come se fosse un clown nel grande circo. Un po' eccentrico, ma innocuo.
È stato quando Tom Waits ha cominciato a negarsi ("
Piuttosto che dare una mia canzone per uno spot, vado a rubare": e già potrebbe bastare), a parlare di William Burroughs, a raccontare della
Bone Machine, a mostrare con lucidità di splendido narratore il senso, la logica e il profilo della marginalità che ha sempre raccontato che è stato rimosso, messo in disparte, in secondo piano. Niente celebrazioni, nessun anniversario, nemmeno un premio piccolo piccolo per una carriera, anzi per una vita, che è lì da sentire e guardare. Solo un'antologia, in fretta, e tanti saluti. È così che gira, ma sotto le tane dei serpenti c'è un mondo che vive:
Mule Variations arriva da laggiù dove Tom Waits è re, principe, presidente, primo ministro, libero cittadino e padrone della pioggia. Come tutti, compresi i muli e i cani randagi.