TOM WAITS (Alice / Blood Money) /
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  Recensione del  31/03/2004
    

Un'idea concreta, per capire Alice e Blood Money, potrebbe essere quella di considerarli parti di un doppio album, piuttosto che due dischi diversi, perché in realtà hanno moltissimo in comune. A partire dalle pièce teatrali per cui sono nati: sia George Buchner, sia Lewis Carroll, ovvero gli autori che le hanno ispirate, sono due scrittori anglosassoni (tedesco il primo, inglese l'altro), europei, legati alle turbolenze di metà Ottocento e a personaggi che sono protagonisti di storie dai complessi risvolti psicologici. Charles Lutwidge Dodgson alias Lewis Carroll è il maestro del nonsense e il papa dell'universa I mente conosciuta Alice Nel Paese Delle Meraviglie, un capolavoro del paradosso, un'opera unica e visionaria che da sola ha cambiato i parametri della narrativa.
George Buchner è forse meno conosciuto, però tra i suoi lavori spicca Woyzeck, un dramma teatrale che dalla sua prima rappresentazione non si è mai staccato dal cartellone. Racconta un fatto di cronaca, protagonista un soldato, Woyzeck, vittima di un adulterio e delle conseguenti beffe di caserma: tanto lo spingerà ad uccidere la moglie e a suicidarsi. Un omicidio passionale, in fondo, che a ben guardare potrebbe appartenere a qualsiasi gazzetta di provincia o a qualunque reality show del villaggio globale. È anche qui la sua attualità: George Buchner, senza esitazioni, ha scavato nella mente dei personaggi, offrendone una panoramica allucinata e carica di presagi.
Dello stesso tenore le parole e la musica di Alice e Blood Money: tutto sembra finalizzato ad un addio, ad un lungo tramonto e, scorrendo le canzoni, cresce un'atmosfera struggente di malinconia, di abbandono, di morte: fiori su una tomba, guardali sparire, nessuno sa che me ne sono andato, la parte che butti via, tutto va all'inferno (noi diremmo: a puttane) e anche la miseria che è il fiume del mondo. Questa è l'aria che tira, eppure gli archi scorticati e i fiati martellati, il piano e la chitarra, e la voce di Tom Waits, quella voce, fanno sembrare tutto un caldo abbraccio, come se per affrontare l'apocalisse o la fine o quello che sarà servisse anche tun po' di ironia e vagoni di dolcezza.
La chiave è tutta qui: Alice e Blood Money sono due dischi molto, molto romantici (nel senso più classico del termine) perché, pur con il gusto del paradosso e del nonsense sembrano raccontare tutta la decadenza e il crepuscolo di un'era. Senza invettive, polemiche, inutili allarmi o le grida all'ultima news: la nutrita compagnia di musicisti che accompagna Tom Waits in Alice e Blood Money non è l'orchestrina che suona sulla tolda del Titanic, innocente e incosciente e, così, miseramente destinata a passare alla storia. È piuttosto un'armata Brancaleone che si gode il suo momento di gloria, fosse l'ultimo, e continua a resistere, senza traccia di rassegnazione.
Come direbbe William Faulkner, tengono duro, perché non sanno fare altro e la musica è geniale, anche se non è niente di nuovo da Swordfishtrombones e Rain Dogs passando per Bone Machine e/o Mule Variations. Un tappeto di percussioni ossessivo, tribale e poi la voce e le canzoni di Tom Waits: questa è l'essenza, il cuore e l'anima. Nel dettaglio ci sono le differenze (Alice è supportato anche da una follia d'archi; Blood Money da strumenti appena più vicini a quelli di una rock'n'roll band), le stravaganze (il calliope, un organo il cui suono, dice lo stesso Tom Waits, si sente anche a cinque miglia di distanza), i violini modificati, Stewart Copeland alla batteria, una chitarra geniale in Starving In The Belly Of A Whale, ma tutto è sommariamente distante dalla voce e dall'incedere del ritmo. Con questo, le canzoni brillano nitidamente, quasi per contrasto.
Un paio di esempi. In Alice, andiamo in ordine alfabetico, Table Top Joe è un blues elementare, persino didascalico nel suo scheletro armonico, ma in questa repubblica di Weimar del rock'n'roll, diventa un rito pagano e liberatorio, una danza notturna e sfrenata. Dal mazzo di Blood Money arriva invece l'asso di All The World Is Green. Si scioglie in una melodia semplice e bellissima, tutta condotta dalla voce di Tom Waits: c'è solo una base percussiva (con contrabbasso al seguito) e un clarinetto a fare da contrappunto e la canzone si sviluppa da sola senza bisogno di altro, forse un accordo di chitarra giusto per finirla.
Il minimalismo sonoro di Tom Waits, pur cristallizzato sulle sue posizioni, giunge qui ad una sorta di perfezione, per quanto il caos sonoro sia totale. A chi storce il naso davanti alle sue evoluzioni, anche le più eccentriche, ricordiamo che "uno non può fare a meno di crescere". Lo faceva dire, ad un certo punto, Lewis Carroll alla sua Alice persa tra specchi e conigli ed è anche una delle logiche di questi due ingombranti album di Tom Waits. L'alternativa è credersi all'infinito Peter Pan come Michael Jackson o continuare a meravigliarsi di fuochi d'artificio e balocchi vari, magari circondata dalle cautele di stuoli di avvocati e manager, come fa Mariah Carey.
Niente che c'entri con la musica o con la poesia, comunque, perché i dischi che non si vendono e le case discografiche che chiudono (ringraziate Michael Jackson, ringraziate Mariah Carey) poi sono una parte importante di un mondo, di questo mondo a cui manca, ormai, soltanto l'ultima lullaby. La trovate in Alice, in Blood Money: siamo tutti pazzi qui, canta Tom Waits, ma qualcuno, nella sua follia, ha visto giusto.