BILL MILLER (Ghostdance)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Ghostdance comincia con un preludio orchestrale molto suggestivo che conduce in Every Mountain I Climb: ballata epica e surreale, come se il fantasma di Roy Orbison avesse incontrato John Trudell con la benedizione pagana di Steve Earle.
Una grande canzone che fa riscoprire in un attimo Bill Miller, songwriter nativo con almeno un paio di album di tutto rispetto alle spalle, Red Road e Raven In The Snow. Tendenzialmente più acustico il primo, foriero di micidiali sferzate elettriche il secondo, entrambi punteggiati da canti e percussioni tradizionali, Bill Miller si pone, grazie ad una voce affascinante, su un piano più musicale rispetto a molti suoi contemporanei.
A livello di sonorità Ghostdance si avvicina di più a Red Road per una presenza costante delle chitarre acustiche, ma tende anche ad essere il disco più ambizioso di Bill Miller, già con Every Mountain I Climb a mostrare quanta attenzione abbia mostrato per le canzoni. Tutti gli arrangiamenti vanno in una sola direzione: che si tratti degli archi (e Ghostdance è uno di quei casi dove sono usati sempre con gusto e misura), delle percussioni, di un organo che ricama attorno alle melodie (semplicemente perfetto, nella sua essenzialità, in The Vision) o di strumenti tradizionali (il flauto in Waiting For The Rain) sembrano sottolineare in continuazione la natura delle canzoni di Bill Miller. Tutto ciò rende Ghostdance il suo disco più personale, ovvero quello in cui i ritmi tribali e gli strumenti del rockVroll sembrano aver ritrovato la loro primordiale unità.
Merito anche della produzione dell'esperto Richard Dodd che mette lì un suono grezzo e brillante nello stesso tempo: quello che serve esattamente a Bill Miller. Chiedete al vostro negoziante di fiducia di farvi ascoltare Blessing Wind, con quel groove ostinato ed ossessivo che si mescola alle chitarre acustiche e non togliete il compact disc senza aver ascoltato quel suono un po' Byrds e gli svolazzi dell'organo in Waiting For The Rain.
Più fedele alle proprie radici native (che riempiono i testi di visioni, eventi atmosferici, wilderness e così via) di molti suoi colleghi, Bill Miller chiude Ghostdance con la stessa melodia con cui l'ha cominciato, come se forse un cerchio magico, e si segnala tra i più interessanti songwriter americani degli ultimi anni: non merita di finire in una riserva qualsiasi, fategli un po' di spazio nelle vostre praterie.