ROKY ERICKSON (Never Say Goodbye)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Un album totalmente inedito, acustico, inciso tra il 1971 ed il 1985, che ci rivela un Roky Erickson che non conoscevamo. I ragazzi della Emperor Jones, l'etichetta che ha reso pubbliche queste registrazioni, si rivelano timidi e ritrosi nei riguardi di questo disco: "Abbiamo pensato a lungo se rendere pubbliche o meno queste registrazioni, ma alla fine siamo giunti alla conclusione che l'assoluta bellezza di queste canzoni avrebbe oscurato la modesta qualità delle registrazioni". Niente di più vero. In un'era un cui la musica low-fi è assurta ai gusti del pubblico, queste piccole gemme acustiche di uno dei rockers più contorti, geniali e tenebrosi della storia del rock, merita di avere un posto al sole.
Anche Anthology dei Beatles o diverse rarità di Elvis Presley hanno una registrazione di bassa qualità, ma in quel caso conta il documento storico. Ed anche in questo caso, a maggior ragione. Erickson è arcinoto come rocker psichedelico, con liriche infarcite di incubi e demoni, fantasmi e vampiri, e questa collezione di adamantine canzoni d'amore merita di essere ascoltata e scoperta da più gente possibile. Non si tratta di mera speculazione, bensì della scoperta di un tesoro nascosto.
Le registrazioni, tutte inedite, sono state fatte in un arco di 14 anni ('71'85) e rivelano un Roky Erickson sconosciuto. Come già detto la registrazione non è sempre a buon livello, in alcuni casi è tremolante, in altri limpida: ma le canzoni fuoriescono ugualmente e rivelano una vena lirica incontaminata, da vero cantautore.
Anche le registrazioni sono state effettuate con mezzi di fortuna o in luoghi non certo predisposti per una registrazione: l'ospedale Rusk State ('71), a casa ('74, Austin), alla radio KTXZ-AM di Austin ('85), ancora a casa ('85) e per strada (Arthur Lane, Austin '83). Come si può vedere si tratta di registrazioni catturate in momenti diversi della vita di questo sfortunato musicista. Non ci sono chitarre distorte o batterie vibranti, ma solo la chitarra acustica, e la voce talvolta tremolante ed insicura, di un Erickson diverso, più indifeso, più profondo. Le liriche parlano di amore, di comprensione, di pace, di redenzione.
Quattordici canzoni, quasi cinquanta minuti di musica, che confermano il genio di un musicista che troppo presto la malattia ci ha rapito, ma che, nei suoi momenti di lucidità ha sempre confermato una bravura straordinaria. Questo è un disco che va preso per come è, nella sua povertà, nella sua scarna musicalità e va centellinato, nota dopo nota: potrebbe essere un vademecum per qualunque cantautore, famoso e non. Quattordici titoli: quattordici canzoni vere, intense, tristi, malinconiche, profonde.
Non sto a descriverle, preferisco che ognuno di voi, se ne ha voglia, tenti di approfondirle, di penetrarle, di renderle proprie. A mio parere sarebbe una vergogna che un disco di questo valore rimanesse nel dimenticatoio, anche se, in un'era digitale come quella che stiamo vivendo, queste tracce dal suono poco brillante cattureranno solo l'attenzione dei più attenti, di coloro che amano la musica e che non hanno paura di prendersi una fregatura solo perché il disco non ha la fatidica dicitura HDCD o non è rimasterizzato con Super 20 bit.
Una volta tanto la musica si fa un baffo della tecnologia: il cuore e la passione non sono mercé che si trova facilmente, specie al giorno d'oggi. Chiudo la recensione con le parole di I love the living you: "Ti amo, amo ogni cosa che fai, amo ogni cosa che ti riguarda, ti amo. Ti amo, quello che fai al viola ed al blu, tu rendi migliore ogni cosa che è bella, ti amo. I petali stanno sui fiori, attraverso le ore, il caldo è caldo, e il freddo è freddo. Dio ti salvi, Dio salvi ogni cosa che fai, Dio salvi ogni cosa che ti riguarda, Dio ti salvi. Grazie di esistere, Grazie per quello che fai, Grazie per quello che sei, Grazie perché esisti".