JOE HENRY (Fuse)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Joe Henry si è stancato di vendere pochi dischi. I suoi albums, sei fino ad ora, non hanno mai superato le diecimila copie, con la sola eccezione di Trampoline, '96, che ha toccato le sedicimila copie. Un risultato mediocre, viste le cifre che usualmente macina il mercato americano. Ma, si sa, la musica di qualità non vende. Allora joe si è stancato ed ha cercato di voltare pagina. Ha lasciato il suono country rock, o alternative country, che aveva caratterizzato i suoi lavori di mezzo (Short Man's Room, '92, e Kindness of the World, '93) per rendere più sofisticata e ricercata la sua musica. Trampoline prendeva spunto dalla ricchezza di Shuffletown, '90, senza però raggiungere le vette di quel lavoro (magistralmente prodotto da T-Bone Burnett).
Mentre Shuffletown era ricco dal punto di vista strumentale, Trampoline perdeva parte di quella ricchezza in favore di sonorità più moderne. Ed ora ecco Fuse, atteso per quasi tre anni, prova del fuoco per Joe. Questo disco è il classico o la va o la spacca, dove il nostro cantautore si gioca le carte per sfondare, o, almeno, per uscire da quell'anonimato che lo ha accompagnato dall'inizio della carriera (ha esordito nell'86 con l'interessante Talk of Heaven a cui ha fatto seguito Murder of Crows, '89).
E Fuse avrà certamente il supporto della stampa specializzata in quanto fruisce di un suono moderno e di arrangiamenti molto rarefatti, tra sampling vari e stacchi che richiamano certa musica che oggi sentiamo spesso alla radio. Il problema è che in questo modo Joe ha spersonalizzato la sua musica, la ha resa più qualunque, lasciando per strada i fantasmi country (Hank Williams, Neil Young e Gram Parsons) che lo avevano accompagnato anni fa, per cercare un suono più attuale. Henry, inoltre, si è autoprodotto, usando i talenti di T-Bone Burnett e Daniel Lanois solo per il missaggio.
La sua voce è sempre molto caratteristica, ma, talvolta, si perde nei meandri di un suono poco personale, avvolta da sampling vari, dalla batteria elettronica, da tastiere talvolta sintetizzate. C'è sempre la cura del particolare e ci sono comunque delle canzoni valide, ma il disco, pur permeato dalla solita tristezza dell'autore, non riesce a catturare più di tanto. Peccato, perché ho sempre difeso Joe, ed a denti stretti, ma questa svolta non mi piace. Le ballate, una volta affascinanti e piene di profonda tristezza, si appiattiscono senza i suoni cristallini che le avevano caratterizzate in passato e la voce risulta sin troppo avviluppata da queste sonorità. Quasi cinquanta minuti ma senza una canzone che colpisce in modo particolare, con l'eccezione di Fuse, ballata profonda e rarefatta, in cui il piano risalta discretamente.
L'iniziale Monkey ha una buona parte vocale, ma non decolla; Angels, come la precedente, inizia con un parlato ed una batteria sorda, mentre una chitarra liquida cerca di dare un tono alla melodia, che poi svanisce nel nulla della canzone. Lo stesso dicasi per la più rockeggiante Skin and Teeth, passabile ma niente di più, e per Fat, veramente bruttina, vuoi per il sampling iniziale, vuoi per la vuotezza della canzone stessa. Want too Much è jazzata ma poco originale, Curt Flood perde colpi sin dall'inizio, per non parlare di Like She Was a Hammer che ha un intro di batteria simile a quello della canzone precedente. Il disco prosegue, senza infamia e senza lode, sino alla cover finale, una esile rilettura di We'll Meet Again.
È triste parlare male di un autore che si è amato molto, ma un disco di questa qualità può fare solo del danno ad uno come Joe Henry. Poco importa che vi siano coinvolti musicisti di vaglia come Jakob Dylan, Chris Whitley, membri della Dirty Dozen Brass Band ed il pianista Dave Palmer (della band di Chris Isaak).