JOHN TRUDELL (Blue Indians)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Il cerchio si chiude: dopo Aka Graffiti Man e Johnny Damas And Me, John Trudell torna all'alba dei suoi esordi discografici, scegliendo un'etichetta assolutamente indipendente (che, per quanto marginale, è ormai la condizione ideale per chiunque creda ancora nel rock'n'roll) e Jackson Browne come produttore. Avrà avuto qualche mezzo in meno rispetto ai servizi della Rykodisc, ma mai come in questo caso sono stati determinanti l'ispirazione, le idee, l'intimo più profondo delle canzoni e di chi le ha scritte. Blue Indians è quello che John Trudell ha sempre sognato, al cento per cento e senza possibilità di errore: chitarre elettriche, canti tradizionali, percussioni, tradizioni native e rock'n'roll. Se si fa una distinzione generale Blue Indians è la nuova frontiera con cui si dovranno confrontare i vari songwriter delle riserve: Bill Miller, Jerry Alfred, Chester Knight. Se si scende nel dettaglio, John Trudell dimostra che se si ha veramente qualcosa da dire (e a lui sicuramente non manca) non serve molto altro, ed ecco piovere un gioiello come Blue Indians.
Il sound è più vicino allo show dei Bad Dogs con Mark Shark e Billy Watts alle chitarre (cooptati anche in qualità di compositori) e ai cori nativi di Quiltman, che alle sue precedenti prove, i pur notevoli Aka Graffiti Man e Johnny Damas And Me e per questo l'idea che affiora è quella di un lavoro più espressivo, personale, convincente. La voce di John Trudell si assesta sul limite già conosciuto di un talking notturno, oscuro e ossessivo, un incrocio tra un reading poetico, Lou Reed e uno di quei bluesman delle riserve che potrebbe raccontare soltanto Sherman Alexie.
È la musica che comincia a mostrarsi con più decisione: le melodie native, grazie ai costanti cori di Quiltman, emergono in Blue Indians più che nei dischi precedenti e s'intrecciano meglio (sentite Grassfire, per esempio) alle canzoni di John Trudell. Altre sfumature appaiono più evidenti, chiare, incisive: il rock'n'roll stesso di Angel Of Sin, certe ombre di soul, un gusto più chiaro e nitido per le ballate. Attorno alla voce di John Trudell non c'è granché, oltre alle fidatissime chitarre di Mark Shark e Billy Watts: un paio di percussionisti di qualità (Luis Conte, Wally Ingram), un pianista dal tocco sensibile (Ricky Eckstein).
Anche Jackson Browne sembra svolgere il ruolo di produttore in maniera illuminata: a parte qualche backing vocals, non c'è intervento di rilievo e Blue Indians, con il passare degli ascolti, arriva a suonare come il disco più fedele alle idee e ai sogni di John Trudell. Per quanto riguarda i testi, che rappresentano un buon settanta per cento dell'universo di John Trudell (e consiglio caldamente una bella ripassata di Stickman, un libro che è il perfetto vademecum per conoscerlo: chiedetelo direttamente alla Selene Edizioni, 02/54120992) ci vorrebbe ben altro spazio, vista e sentita la loro natura, come al solito, poco accomodante. E logico: John Trudell è un ribelle che ha trovato nel rock'n'roll quello che l'impegno politico non gli ha mai concesso. Libertà d'azione e di movimento, la possibilità di esprimersi compiutamente e, chissà, magari di convivere con i propri demoni.