Unico, originale, anticonformista e anarchico,
Little Steven è uno di quei personaggi che andrebbero inventati se non ci fossero già. Non è una pedina fondamentale nella storia del rock ma sicuramente è insostituibile visto la differenza della E-Street Band con e senza di lui. Come sideman di Springsteen è l'uomo che fa gli assist, è il rhum della compagnia, la faccia sporca dell'orchestra, il ribelle della stanza accanto, il guevarista della boardwalk, come solista è un irrefrenabile vulcano di energia e trovate, qualche volta geniale molte volte confusionario ed eccessivo, rocker sempre e misurato professionista quasi mai.
Il suo primo album solista coi
Disciples Of Soul (
Men Without Woman) me lo ascolto ancora adesso tanto duro e sferzante è il rhythm and blues che riesce ad inventarsi, anno 1982, fondendo attitudine da Street gang di Biade Runner e ballate soul urlate con la Telecaster piuttosto che col sax. Gli altri dischi, certo,non furono un miracolo di belle maniere rock e virtù musicali,
Voice Of America stava ancora in piedi ma il resto era più apprezzabile per le parole di fuoco contro Reagan e l'imperialismo che altro. Non dimentichiamoci che Little Steven è stato l'artefice di
Sun City e proprio il tentativo di essere un patriota del rock universale lo ha portato qualche volta a perdere di vista il rock'n'roll in nome di un crossover senza bandiere in cui convergevano funky, reggae, rap ante litteram, punk, salsa elettronica e hard di varia natura.
Dopo molti anni di assenza dalle scene discografiche
Miami Steve Van Zandt detto Little Steven ritorna come dice lui stesso «
con un disco che avrei fatto nel 1969 se ne fossi stato capace, un disco che suona come un tributo ' a quei pionieri dell'hardrock che mi hanno fatto sentire vivo quando stavo crescendo. Parlo di gente come i Kinks, gli Who, gli Yardbirds e i tre gruppi generati dagli Yardbirds ovvero Cream, JeffBeck Group e LedZeppelin». Basterebbe questa affermazione per baciarlo in fronte (non avesse il bandana) e assolvergli il disco che, come suggerisce il titolo
Nato Ancora Selvaggio, è veramente selvaggio da tutti i punti di vista, visionario e mistico, debordante di assoli e immagini, grezzo e primitivo, dark e romantico,apocaIittico e psichedelico.
Anche vero, terribilmente vero nonostante non abbia un sound per palati fini ed un pò greve in alcune parti. Little Steven è questo, non è un chitarrista che discende dal blues e dal soul in senso stretto anche se poi alcune sue canzoni ne hanno i tratti, è piuttosto un outsider "forgiato" dai chitarristi e dalle band inglesi degli anni '60. Basta guardare il ricco e coloratissimo booklet che accompagna il disco per accorgersi quale sia il suo immaginario. Sembrerebbe un disco di evasione totale ed invece non lo è perché
1) le letture che - dice Little Steven - lo hanno influenzato per quest'album sono il Corano, la Bibbia (in una traduzione dall'aramaico), Confucio, i Sutras, LaoTze, Tao Te Ching, il guru Granth Sahib, la Storia delle Religioni di Huston Smith, Noam Chomsky, Bertrand Russell, T.S Eliot, David Joahnsen e le New York Dolls, 2) perché «
questo è il quinto e l'ultimo degli album politici che io ho fatto. Dopo sette anni di girovagare mi sono accorto che noi viviamo in un manicomio malato, in un cesso barbaro e pietoso dove la violenza, l'ingiustizia, la confusione, il torto, la paura e la frustrazione regnano sovrani e pochi sono i momenti di pace, amore, verità e bellezza. L'unica possibilità di contrastare tale immondizia è mantenersi integri, cercare nel proprio piccolo di fare del meglio senza però agire dietro ringraziamenti e riconoscenze, agendo solo per sé e la propria anima».
Il risultato a livello musicale è un tostissimo e granitico disco di hard-rock che fa venire in mente i nomi citati all'inizio, specialmente i due dischi (
Truth e Beck-Ola) fatti da Jeff Beck una volta lasciati gli Yardbirds. Ritmica pestata, assoli di chitarra al limite del metal, brani lunghi, rumori di resistenza e parole di salvazione, macigni di canzone contro la follia mondiale, belle introduzioni di chitarra acustica prima di un apocalittico rock che sta tra gli Steppenwolf e i Blue Cheer, i Blue Oyster Cult ed il dirigibile: quella di Little Steven è una musica da barricate se non ci fosse tutta quella coreografia epico-psycho-misticheggiante. Certo non si va per il sottile e con lui il basso di Adam Clayton e la batteria di Jason Bonham che, deduco, è il figlio dell'ex batterista dei Led Zep, il quale da lassù (o laggiù?) non può che felicitarsi per un disco che picchia come un martello degli Dei.
Ci sono poi gli interventi dell'amico di sempre Jean Beauvoir e di Steve Jordan e si sentono a volte le tastiere come venivano usate da gruppi dell'hard-rock tipo i Blue Oyster Cult. Le cose migliori:
Face Of God è una ballata granitica alla Led Zeppelin che si invola verso
Stairway To Heaven con una chitarra omicida,
Saint Francis inizia acustica e dolorante e poi quando si carica di elettricità va su e giù come un aereo impazzito,
Salvation è rock duro allo stato puro con un refrain che gli Areosmith se lo sognano,
Flesheater potrebbero essere i Black Crowes di oggi,
Lust Por Enlightnement ha qualche implicazione progressive con quei rimandi orientali ma la chitarra suona come se Jeff Beck fosse stato il chitarrista degli Zeppelin.