STAR CITY (Star City)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Star City arrivano da New York. Ma sono una mosca bianca nella grande mela. Non fanno hip hop, trip hop, quadrip hop, jungle, dance, rap, crap, pap, trash metal, death metal, heavy metal, hardcore punk o altre amenità del genere: non appartegono al fenomeno post rock, fanno del sano rock, punto e basta. Le etichette non servono alla musica buona, e Star City se ne fregano delle etichette. Caso mai siamo noi recenserori che andiamo a cercare questo o quel paragone per rendere più chire le idee al lettore. Star City fanno del rock, sano e ruspante, ed il modello principe sono i Son Volt di Jay Farrar.
Musica solida, elettrica, ma con la melodia ben insita nei solchi ed una voce, quella di Jason Lewis, che si rifà decisamente a quella di Jay Farrar. Lewis scrive in modo vivido, mischiando le proprie melodie con un tappeto rock fortemente contaminato con le radici. Sotto la guida di Albert Caiati (che ha lavorato anche con Blue Mountain e Bottle Rockets) gli Star City colpiscono al primo ascolto. La band, oltre a Lewis, conta nella sue fila musicisti solidi che rispondono ai nomi di David Chernis, Errol Kolosine e Todd Nicholson.
Notevole l'apporto di Chernis, polistrumentista che si fa notare alla steel guitar, all'elettrica ed al banjo. Il resto lo fanno le canzoni. Fruit of the Poisonous Free è sintomatica del suono della band ed ha un forte punto di riferimento con le composizioni di Farrar. Molto bella anche la country oriented Kissed a Girl che, come dice No Depression, è un omaggio ai migliori Jayhawks, quelli di Hollywood Town Hall (certamente non quelli del mediocre Sound of Lies). Notevole anche Green Grass Blue, molto più country delle due precedenti, che racconta di un rapporto spezzato, con la voce di Lewis triste e forte al tempo stesso.
Broken Heart ha sempre una insistita dipendenza country, ma si avvicina maggiormente alle sonorità care a Dwight Yoakam, indurendo il suono (ma questo accade già con il brano precedente), solo dopo le prime note, con il piano di Andy Hollander in evidenza. Altre canzoni degne di nota sono Spice Knob, Indian Summer, molto elettrica e potente nel suo incedere, Will You Be Around e The Sleeping Dog. Un cenno a parte per la conclusiva Ring of Silver che, a lungo andare, risulta la più intensa e meglio costruita del disco. Dolce, rarefatta, con la fisarmonica che la sfiora appena (Andy Hollander).