CRACKER (Garage d'Or)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Da un punto di vista discografico, un'antologia dopo soli quattro album non è molto più di una speculazione, anche perché i Cracker sono un gruppo a cui non mancano le idee anche se sembrano davvero, come cantavano in una canzone di Gentleman's Blues, "l'ultima rock'n'roll band del pianeta". Oggettivamente, quindi, Garage D'Or arriva un po' troppo presto, salvo che i Cracker non abbiano in animo di chiudere i battenti.
Considerazioni sull'incomprensibilità dell'industria discografica a parte, e prendendolo per quello che è, si tratta invece di un disco superbo, confezionato con cura che mette su un piatto della bilancia quasi due ore di uno dei migliori rock'n'roll possibili nel 2000. Sull'altro (piatto) metteteci quello che volete, ma di motivi per non rimanere indifferenti e diventare fans dei Cracker qui dentro ce rie sono un bel po'. Tutti i dischi in studio sono rappresentati equamente: bella la freschezza dell'esordio (Cracker) ben rappresentato da Teen Angst (What The World Needs Now), This Is Cracker Soul e I See The Light) notevoli le canzoni da Kerosene Hat, forse il punto più alto del primo periodo dei Cracker, quello con Michael Urbano alla batteria e Davey Faragher al basso.
Sono proprio loro che spiccano nella contrapposizione con David Lowery, un talento visionario (non ultima la produzione del magnifico This Desert Life dei Counting Crows) che riesce a convivere con le chitarre di Johnny Hickman, uno che non spreca una nota per caso. È attorno a questa coppia che si è materializzata la seconda parte della carriera dei Cracker: prima il transitorio The Golden Age che aveva alcune ottime canzoni (a partire da Dixie Babylon, l'unica vera mancanza di questa antologia), ma che era sbilanciato nel delirio di David Lowery; poi Gentleman's Blues dove l'equilibrio con Johnny Hickman si è ristabilito, dando vita al loro masterpiece.
Ovvio che da quel disco siano stati presi soltanto un paio di brani (e nemmeno dei più rappresentativi), visto che vale la pena di conoscerlo per intero, e qui si ritorna al discorso iniziale. In Garage D'Or non c'è però traccia di fregatura: una bella versione di Shake Some Action dei Flamin' Groovies (era in una colonna sonora) e tre inediti (buoni, per quanto non straordinari) riempiono il primo disco. Il secondo è la garanzia: tra inediti, registrazioni dal vivo, la versione (bella, ma niente di più) di You Aint Going Nowhere (Bob Dylan, of course), outtakes e strumentali (formidabile Surfbilly) si aggiungono altre dodici canzoni di tutto rispetto.
Dal mazzo pescherei subito gli assi di Sunday Train(un'outtake da Kerosene Hat) e Whole Lotta Trouble (da un'altra soundtrack: il cinema paga) in cui Davey Faragher e Michael Urbano spiegano da soli perché, per un bel po', sono stati la sezione ritmica più richiesta d'America, John Hiatt per primo. A seguire la versione (dal vivo, con tanto di orchestra) di I Want Out Of The Circus che trova finalmente una dimensione alle sue atmosfere felliniane, l'honky tonky di Mr. Wrong e di Lonesome Johnny Blues (dal vivo, con i Cracker attuali: Frank Funaro, già nei Del Lords, alla batteria, Bob Rupe al basso e Kenny Margolis alle tastiere, già nei migliori Mink De Ville e nei Lucky 7: nella prima ci mette un piano brillante, nell'altra la sua fisarmonica).
Chiude un demotape, i Cracker agli inizi: China è proprio una bella canzone e un bel ricordo di quando Johnny Hickman e David Lowery cercavano l'oro nel garage di casa. Prendetela come un omaggio a questi due rock'n'roller, ma questa, per i Cracker, è qualcosa di più di un'antologia.