PAUL THORN (Aint Love Strange)
Discografia border=parole del Pelle

     

  Recensione del  31/01/2004
    

Basterebbe il nome dell'etichetta discografica, Oscurità Perpetua, per inquadrare Paul Thorn, un'attività di boxeur e secondo disco come cantautore rock. Storie oscure e marginali, amori sbagliati, sfighe di provincia ed il duro mestiere di vivere, questo è ciò che si desume da Aint love Strange, un disco fuori dagli abituali canali del cantautorato Usa che ha personalità da vendere e canzoni niente male. Paul Thorn viene da qualche parte del grande paese e tra un pugno e l'altro (nei ringraziamenti ci sono i nomi di Mohammed Alì e Roberto Duran) trova il tempo di mettere insieme quattordici canzoni che non faticano a farsi apprezzare per il modo originale e atipico con cui affrontano il rock.
Ogni canzone ha una sua dinamica e sue soluzioni e sebbene diverse l'uria dall'altra alla fine concorrono a dare del disco un'immagine precisa, non canonica ma assestata su quella che è la canzone d'autore più pura, scevra dai condizionamenti delle roots e tutto sommato ricca di musicalità anche se essenziale e semplice nelle sue linee. Paul Thorn canta con voce scura e soul, non urla e schiamazza ma preferisce il lowdown, si disimpegna con sufficiente malizia con la chitarra acustica e delle percussioni lo-fi, dietro di lui basso, batteria, tastiere e qualche chitarra in più sostengono un impianto sonoro che mira al sodo, crea ambienti notturni e situazioni bluesy, suoni laidback e scarne melodie, lasciando che siano le canzoni a svelare i propri segreti.
Un disco quanto mai intrigante che non fa del gesto plateale l'appiglio per catturare l'ascolto, piuttosto si muove su quel basso profilo sonoro ad alto grado emotivo riscontrabile in outsider tipo J.J. Cale, il Tom Waits degli inizi, William Topley, Bocephus King e i vari derivati minimalisti dei Los Lobos. Come J.J. Cale predilige il suono laid back delle chitarre, il blues pigro e minimo, le atmosfere svogliate e l'atteggiamento disincantato, ne sono dimostrazione la title track, Blue Stew oppure Burn Down the trailer Park, l'ipnotica Help me out hook me up e Fabio & Liberace dove sembra di essere in quel lo-fi blues espresso dai succedanei dei Los Lobos Houndog in primis).
Come Tom Waits ha a cuore le storie che non vanno da nessuna parte e si ingarbugliano in qualche amore tanto romantico quanto perduto, come William Topley fa della varietà il proprio raggio d'azione mettendo a contatto il blues con briciole di reggae, di jazz e di rock fuoripista (Black Rainbow) sortendo una veste sonora a basso tenore di elettricità dove con le chitarre e la misurata sezione ritmica lavorano bene il piano, l'organo ed il wurlitzer. Come Bocephus King infine, Paul Thorn ama le soluzioni anomale e pur non possedendo la contagiosa effervescenza del canadese riesce comunque ad essere singolare anche con un più ridotto numero di giri.
Cruditè e gesti languidi (sentire ad esempio le tenui e sussurrate What do you take me for? e Ain't Gonna Beg) Ain't love strange, senza tanta enfasi, è un disco che si gusta dalla prima nota all'ultima.