WARE RIVER CLUB (Don't Take It Easy)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Dal cuore dell'America rupestre ecco gli Ware River Club, banda proveniente da Haydenville, un piccolo centro del Massachussets. Sulla scia di gruppi come i Wilco ed i Whiskeytown, negli ultimi cinque anni, dalle piccole città di provincia Americane, sono spuntate come funghi "entità" musicali che sono state accumunate con il termine di americana sound o rootsrock.
Poche di queste bands, però, sono riuscite a superare la mera notorietà locale che ha finito per insabbiarne la maggior parte in un anonimato che ha costituito il prezzo da pagare per questi intraprendenti ragazzotti di provincia. Sugli Ware River Club, che esordirono nel '98 con il cd The bad side of Otis Ave, si poteva scommettere. Primo, perché nelle loro fila militava un genietto dal nome Ray Mason, oggi celebrato artista solista, secondo, perché il sound degli Ware River Club aveva quel guizzo in più, le canzoni del ed di esordio erano già assai solide, e le idee ispiratrici delle songs affondavano le loro radici molto lontano, partendo dal folk per arrivare ad un border sound roccheggiante dalle sfumature quasi Paisley.
A sostenere i riffs impetuosi degli Ware River Club, ci pensano le tre chitarre di Matt Herbert, Matt Cullen e Bob Hennessy, quest'ultimo grande pluristrumentista e vera anima della band. Si aggiunga, che la voce di Matt Herbert è perfetta per questo rootsrock di maniera, roca quanto basta, sofferta a puntino. In Don't take it easy, ciò che più colpisce è l'insieme, riffs pop-rock che rimembrano vagamente il miglior Rick Hopkins, con improvvisi interventi strumentali di chiara matrice folk, grazie alla lap steel, al banjo ed all'armonica, il tutto unito ad una grande intelligenza compositiva.
Per incidere Don't take it easy gli Ware River Club ci hanno messo un anno, e questo dimostra come il lavoro sia stato curato in ogni piccolo particolare, dalla produzione veramente sopraffina, alla scelta delle undici canzoni, pensata e ripensata, per non lasciare nulla al caso.
Parlando di Roots-rock, ci si accorge che un prodotto è di valore, quando l'ascolto non annoia, quando si riesce a carpire notadopo nota, a trovare qualcosa di intrigante in ogni brano, e, questo, a mio avviso, è il caso di Don't take it easy.
Rocks avvinghianti come l'iniziale Knock on wood, si alternano a momenti più dolci e malinconici come Hurry up, od a ballate chitarristiche di spessore quali Burn, Goddess of my Street, Sinking o Generations. Le mie preferite sono la lenta It's ok, con un'armonica da brivido, e l'acustica If you need to leave me.