JOE HENRY (Scar)
Discografia border=parole del Pelle

     

  Recensione del  31/01/2004
    

Solitamente, è grazie ad un disco come Scar, che viene immediatamente incollata la parola maturità al suo autore. Il più delle volte è anche sinonimo di prepensionamento, ma nel caso di Joe Henry è davvero un momento importante della sua storia. Scar è il disco che lo proietta verso livelli che aveva raggiunto solo con Shuffletown (e sono parecchie le affinità sonore tra i due album) ed è l'ulteriore dimostrazione di un songwriter capace di confrontarsi con musicisti di valore assoluto.
Il folksinger di Murder of Crows o Short Man's Room, per quanto appassionato e convincente, ha lasciato il posto ad un interprete che riesce a muoversi tra arrangiamenti poliedrici e suoni modernissimi, jazzisti stratosferici ed esperimenti ai limiti del free. Colpisce anche l'evoluzione del songwriting: tra Fuse e Scar, Joe Henry allargato il raggio d'azione della sua scrittura, con dozzine di personaggi fittizi e reali, fantasmi e dialoghi, storie e immagini a valanga.
È proprio da Fuse che bisogna partire per arrivare a comprendere il presente di Scar. Ricco di idee ancora in fase di gestazione, belle canzoni magari slegate tra di loro, Fuse era un work in progress che necessitava di pazienza, attenzione e sicuramente di un ascolto non distratto. Sulla stessa falsariga è Scar, che non è musica da supermarket o da sentire nell'autoradio: soluzioni fascinose, giochi di ombre e luci come in un quadro di Edward Hopper, mood umorali e intrisi di passioni jazzistiche, un'aria di film in bianco e nero convivono con suoni moderni e perfettamente in sintonia con il tempi.
Manifesto di tutto Scar è Richard Pryor Addresses A Tearful Nation, un brano splendido, ipnotico e intenso che apre le danze: all'inizio sviluppa al meglio alcune delle intuizioni ritmiche e sonore di Fuse, poi dal cuore della canzone nasce un fantastico assolo di sassofono che la porta fino alla fine. Non a caso, visto che il fiato è di Ornette Coleman (e a chi ancora dovesse farne la conoscenza consiglio Rare Is A Beauty Thing, cofanetto di qualche anno che ripercorre quasi tutta la carriera di questo straordinario jazzista), invitato prestigioso delle super session che hanno prodotto Scar.
Tra gli altri musicisti, infatti, si segnalano Me'shell Ndegeocello, Brad Mehldau e Mare Ribot, che è protagonista nella canzone successiva, Stop: ha un ritmo sudamericano, archi che sembrano arrivare da un'orchestra balcanica che si è persa lungo il border e una chitarra, quella di Mare Ribot, che non perde un colpo dalle prime battute fino alla fine. Nessuno si offenderà se ascoltando Stop vi verranno in mente i Los Lobos degli ultimi dischi, This Time in particolare, o i Los Super Seven. Sullo stesso, altissimo livello c'è anche Mean Flower: più soulful, con una chitarra che ricama in sottofondo come se stesse studiano gli accordi preferiti da Marvin Gaye sulla ristampa (imperdibile) di What's Goin On, bellissima.
Le prime tre canzoni bastano e avanzano e l'unica perplessità, in tutto il disco, sono i tre minuti e ventitre secondi di divagazioni free di Nico Lost One Small Buddha che però hanno un senso se considerati una sorta di introduzione la parte conclusiva, altrettanto affascinante del trittico iniziale: Cold Enough To Cross è una ballata pianistica che ricorda vagamente Shipbuilding di Elvis Costello, e questo può essere solo è un complimento; Edgar Bergen, dedicata al ventriloquo che con il suo pupazzo, Charlie McCarthy era particolarmente conosciuto nei locali notturni degli anni Trenta e poi nei quiz show televisivi degli anni Cinquanta (detto ad onore di cronaca, l'attrice Candice Bergen è sua figlia) sembra una scelta tra le migliori outtake di Fuse e ha qualche punto di contatto con i lavori di Daniel Lanois; mentre l'omonima Scar, compresa coda in cui torna protagonista Omette Coleman, è una ballata soffusa, perfettamente orchestrata.
Tra tante stelle, è indispensabile non dimenticarsi di Joe Henry che, proprio con Scar, dimostra di avere tutte le doti necessarie per diventare ed essere uno dei più importanti songwriter emersi negli ultimi vent'anni, salvo che non lo sia già.