SCOTT GIBSON (Live Sessions, July 17, 2000)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Non sapevo nulla di questo interessante autore, sino a che non ho avuto tra le mani il suo disco d'esordio. Solo trentasei minuti di musica, ma che musica. Almeno quattro canzoni sono dei capolavori ed il ragazzo, ancora giovane, ha dei margini ulteriori di miglioramento. Scott non è proprio un novellino, visto che ha passato gli ultimi dieci anni della sua vita a suonare il basso per varie band texane. Cresciuto nella ricca tradizione della natia Austin, ha imparato a comporre ed a suonare ascoltando i musicisti locali.
È noto che il Texas è una terra ricca di talenti e la conferma arriva da questo disco, dove un signor nessuno regala emozioni rare e splendide canzoni, con l'aiuto di un manipolo di turnisti validi ma poco noti, grazie solo alla voce decisamente matura ed al songwriting, chiaramente fuori dalla norma. Scott ha fatto il sideman di studio ed ha girato in lungo ed in largo gli Stati Uniti suonando per gente che si era già fatta un nome, come Kacy Crowley (ha esordito su Atlantic), James Mc Murtry (lo conosciamo tutti), Michael Fracasso, ed altri ancora.
Live Sessions, July 17, 2000 è stato registrato in poche ore in uno studio di New York, dove Scott è stato aiutato da alcuni membri della band di Jimmie Dale Gilmore (Chris Cage, Glenn Kawamoto e Rob Gjersoe), assieme al batterista newyorkese Doug Yowell. Il disco sintetizza alla perfezione le varie influenze di Scott: country, folk, rock, pop e roots.
Un disco secco, diretto e molto equilibrato, che alterna ballate di grande respiro a brani rock limpidi, suonato in modo asciutto, dove viene alla luce la genialità di Chris Cage, sideman texano di grande talento, oltre alla bravura degli altri musicisti. L'album si apre con la ballata epica Robin-On-Huson: una canzone tra folk e rock, suonata con piglio fiero, cantata con trasporto e dotata di una melodia splendida.
La voce è sicura ed il suono di grande presa: pochi gli strumenti, con la fisramonica di Cage in evidenza, ed una ritmica mossa ma mai invadente.
Il resto lo fanno la melodia e l'uso intrigante della slide guitar che da un tono picaresco al tutto. Un inizio folgorante. Make Ready è un rock and roll elettroacustico semplice e molto pulito. Niente di particolare, solo buona musica, suonata con trasporto. Una canzone "normale" che però non sfigura . Ballad of the Balladeer (Saturday Night) è una turgida composizione acustica che riporta in cielo il nostro giovane esordiente: voce e chitarra, molta anima, un grande calore, ed una melodia che sgorga libera dalla penna creativa dell'autore. I Believe è romantica, avvolta da un tappeto di strumenti, ed ha un feeling folk rock profondo. Semplice nel suo tessuto ha un ritornello che prende all'istante e si ascolta tutta d'un fiato. Let's Let Love è lenta, profonda e maliconconica. Gibson scrive con il piglio del grande cantautore e la fisarmonica di Cage fa il resto.
Una ballata che ricorderemo a lungo. Kripalu, titolo assurdo, è il capolavoro del disco. Una canzone dai toni accesi, che mischia folk e rock con grandi intuizioni melodiche. La fisarmonica e la slide formano un tappeto di sicura presa e la voce matura di Gibson fa il resto. Ma la canzone è forte, vigorosa, piena di carattere ed ha un crescendo formidabile. Sembra una folk song d'altri tempi, quando ogni disco ci sorpendeva, quando canzoni di questo spessore erano all'ordine del giorno. Una canzone come Kripalu non la ascoltavo da molto tempo.
The Hardest Part of Hurtin' (Is the Hope) è un lento spezzacuori dal tempo strascicato, con gli strumenti che sfiorano la voce di Scott, mentre la musica fluisce in modo limpido. Chiude il disco la lenta Fallow che, a conti fatti, risulta la più normale e meno appariscente dell'intero lavoro. Scott Gibson è un talento vero: spero che abbia altre occasioni di incidere perché uno di questo stampo non lo si trova tutti i giorni.