EDWIN McCAIN (Far From Over)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  31/01/2004
    

Edwin McCain è uno di quei casi sempre più rari in cui un musicista di buon talento incide con continuità per una major, pubblica dei lavori più che buoni senza "arrotondare" il suono ad appannaggio delle radio FM, e riesce pure a vendere in maniera soddisfacente. Far from over non è infatti l'esordio di McCain, songwriter proveniente dalla Carolina del Sud, bensì il quarto: ha esordito nel 1995 con Honor among thieves, per trovare il successo nel 1997 con Misguided roses, che diventa disco di platino (ed il singolo I'll be entra nei top 10), e confermarlo con Messenger, disco d'oro nel 1999. Ora, preciso come un orologio svizzero (un disco ogni due anni), Edwin pubblica quello che è forse il suo sforzo migliore e più completo: Far from over è infatti un ottimo collage di ballate corpose e brani rock classici, con umori gospel, un pizzico di California, qualche addentellato con la musica roots, e, soprattutto, una serie di brani degni di un vero cantautore.
La band che lo accompagna è rodata alla perfezione (suonano circa 300 shows all'anno!) e ruota intorno a Larry Chaney, che suona con perizia le chitarre soliste e tutti gli altri strumenti a corda, accompaganato da Scott Bannevich al basso, Dave Harrison alla batteria e Craig Shield alle tastiere e sassofono. Ma, come ho già detto, è McCain che fa la differenza con le sue canzoni (specie le ballate, tutte di ottimo livello), ed in più è dotato anche di una bella voce roca, molto simile a quella di Don Henley. L'album è stato inciso in Texas, negli studi Pedernales di Willie Nelson, ed è stato prodotto da Greg Archilla, già tecnico del suono per Neil Young, i Matchbox 20 ed i Collective Soul; l'unica ospite di rilievo è Shawn Colvin, alla seconda voce in un paio di brani. La title track apre il disco: una rock song urbana potente e ritmata, con chitarre sugli scudi e la voce arrochita di McCain a tessere una melodia di stampo classico, come una volta usava fare un certo Bob Seger.
Hearts fall è la prima ballata di tutto rispetto, dal crescendo accattivante e con la voce dolce della Colvin ad ingentilire il tutto: una tipica canzone d'autore, molto anni 70 nell'assunto. Sun will rise potrebbe essere un ottimo singolo: ha quelle qualità di freschezza ed immediatezza che potrebbero rivelarsi adattissime alle radio americane. Intendiamoci, non siamo dalle parti di Britney Spears o Cristina Aguilera, ma piuttosto in uno di quei momenti in cui si fondono qualità e vendibilità, sempre meno frequenti quando si parla di musica rock. La tenue e rilassata I've seen a love, dagli accenni gospel, e la splendida Write me a song, dalla linea melodica intrigante, dimostrano che non abbiamo di fronte un pivellino qualunque, ma uno che conosce la materia e sa come adattarla alle proprie capacità.
Letter to my mother è un'altra ballata dalla base acustica, mentre la dura Get out of this town è l'unico scivolone del disco: un rock indurito con poche frecce al suo arco che, tutto sommato, poteva anche non esserci, anche se un brano brutto su dodici è comunque una media più che accettabile. Kentucky è un'altra delicata slow song che sembra provenire dal repertorio degli Eagles, anche per la voce di McCain qui più che mai sovrapponile a quella di Henley; Radio star e ancora rock, ma con risultati stavolta buoni.
L'album volge al termine con tre ballate: Dragons, ennesima canzone di spessore, per nulla rovinata dal'accompagnamento modernista, One thing left, soulful e jazzata, ma anche troppo sofisticata per i miei gusti, e Jesus, he loves me, straordinaria chiusura con un grande brano gospel, dallo script solidissimo ed eseguito superbamente.