JOHNNY IRION (Unity Lodge)
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  Recensione del  26/02/2004
    

Johnny Irion è un giovane cantautore proveniente dal Sud degli Stati Uniti, che con "Unity lodge" ci consegna un disco d'esordio sorprendente, nella migliore tradizione americana. Johnny non è comunque al debutto assoluto: figlio d'arte (il padre era un tenore, ed anche la nonna e lo zio erano musicisti), Irion debutta poco più che quindicenne con una band chiamata Queen Sarah Saturday, che pubblica un doppio CD nel 1993; il gruppo si separa comunque presto, e Johnny, nel frattempo trasferitosi a Los Angeles, unisce le sue forze con Sarah Lee Guthrie e Tao Rodriguez Seeger (due cognomi niente male!) formando i RIG, un trio folk-roots che gira buona parte degli USA.
Il trio è tuttora esistente, me Johnny si è preso un periodo di tempo per incidere il suo disco solista (al quale partecipano comunque sia la Guthrie che Seeger): come ho già detto, un disco di ottima fattura, con una serie di brani di assoluta qualità, molto influenzati dal Neil Young più bucolico ed intimista, oltre che dal countryfolk e dal songwriting inferiore di Gram Parsons. Particolare anche la voce: dolce, tenue, giusto a metà tra Young e Nils Lofgren. Il manifesto del sound dell'album si riscontra già con il primo brano: "Stationary woman" è infatti una bella folk song acustica, con armonica, steel e mandolini sugli scudi, melodia di stampo younghiano e ritmica leggera ma sostenuta.
La saltellante "DC Niner" è diversa: giusto a metà tra Johnny Cash e Billy Joe Shaver, è più elettrica della precedente, ed anche più country; "Think tank" è una roots ballad impreziosita dal banjo, con un'armonica evocativa ed uno script discretamente articolato, che denota le capacità non comuni di Irion nel songwriting. Il duetto con la voce femminile, poi, ricorda quelli tra Parsons e Emmylou Harris. "Any ol where" ha ancora Young nei cromosomi, quello più prettamente acustico (molto bravo Johnny al dobro), mentre la divertente "Truckers tan" è un country'n'roll con la spina staccata, decisamente ben fatto.
Irion, pur essendo molto giovane, ha idee chiare e nessuna incertezza, e la sua musica è fresca, originale, fruibile. "Frontage road" (che inizia col nastro alla rovescia) è il brano più elettrico del disco: leggermente bluesata, quasi sudista, ha dalla sua un ritornello di sicuro impatto ed un drumming secco e preciso; "Thirty inch coal" è un piccolo acquarello folk per voci, chitarra e dobro, che farebbe la felicità di una come Gillian Welch: chi non si emoziona è meglio che ascolti altro. La pianistica "Poker face" è puro rock californiano anni 70, venato di pop e dalla fruibilità immediata; "Tempest in the teapot blues" è folk blues al suo meglio, mentre la conclusiva "Pilot light" è una ballata country rock, solare ed aperta, purtroppo troppo breve. Buon disco: sentiremo parlare ancora di Johnny Irion, e di sicuro in maniera sempre più positiva.