Un disco particolare, molto particolare. Una serata tra amici, registrata dal vivo in un piccolo caffè di Nashville.il Bluebird Cafè nel 1995. Tre dei più importanti cantautori contemporanei, assieme sul palco per un concerto benefico. Ma non si tratta di una performance asettica, bensì di una serata molto amicale, registrata in mezzo ad amici, con scambi di battute ed una serie di canzoni, alcune formidabili, suonate nel modo più semplice possibile.
Voce e chitarra, voci e chitarre. Inutile dire chi sono i tre, li conoscete tutti perfettamente. C'è un po' di malinconia a sentire la voce calda e triste di Townes, scomparso un paio di anni dopo, ma sentirlo assieme a due partners di tale fatta, fa solo piacere. Earle è l'accentratore della performance: le sueballate, anche se acustiche, hanno sempre un'ossatura rock, una vitalità elettrica, e lui si impegna molto, e si sente. Guy è più discorsivo, il suo cantare raccontando ha un fascino tutto particolare, come se si trovasse a casa sua, di fronte al caminetto, con alcuni amici seduti attorno a lui. Townes è Townes, le sue canzoni sono scolpite nella memoria. Settanta minuti intensi, in cui i tre ripercorrono una piccola parte del proprio repertorio, si scambiano frasi e sorrisi, voci e chitarre, in una atmosfera quasi confidenziale.
Guy Clark apre la serata con un blues,
Baby Took a Limo to Memphis, poi lascia uscire alcune delle sue canzoni più intense, poesia e spiccioli di chitarra, come
The Cape, dalla melodia intrigante, o la straordinaria
Randall Knife, una delle sue canzoni più note, scritta dopo la morte del padre. Un racconto, più che una canzone, ma molto armonico, sentito, profondo. Anche
Dublin Blues si staglia splendida nel silenzio, con la sua linea melodica piena di nostalgia. Guy chiude le sue canzoni con
Immigrant Eyes, un altro brano amaro, da cantautore puro. Clark, nato come country singer, è divenuto negli anni una delle penne più profonde e poetiche.
Townes Van Zandt apre la sua performance con una parte parlata, poi lascia fluire la sua chitarra e intona
Katie Belle: si tratta di una delle canzoni più belle del suo ultimo periodo, quella che dava il titolo (almeno le parole della canzone) al suo ultimo disco, No Deeper Blue. Con la solita vena triste, quasi distaccata, tesse le sue melodie e propone
Ain't Leavin' Your Love, venata di blues, e
A Song For, lenta e molto malinconica. Serba per il finale due classici: una lunga, limpida, versione della stupenda
Poncho & Lefty, accolta da applausi, che viene riletta con la sua sempiterna vena malinconica. Non poteva mancare
Tecumseh Valley, il suo racconto western, che è diventato negli anni una delle sue signature songs.
Steve Earle è il protagonista più in evidenza.
Esegue sei canzoni, una più degli altri.
My Old Friend The Blues raccoglie molti applausi, solo con le note iniziali, poi stempera la sua melodia profonda, acuita da una voce matura e molto vissuta. Earle, oggi come oggi, è uno dei musicisti più completi della scena americana, e questo disco mostra la sua valenza, anche quando è sul palco da solo.
Valentine's day non è tra le sue più famose, ma è intrisa di profonda tristezza ed ha una melodia di grande spessore .
Lo stesso si può dire per la mossa
Tom Ames' Prayer. l'inizio di chitarra ci fa presagire un basso ed una batteria, ma poi la voce si avventura da sola e la chitarra traccia linee melodiche profonde. Non poteva mancare la sua signature song più famosa, introdotta da una armonica dylaniana, in perfetto stile folk singer: mi riferisco a
I Ain't Ever Satisfied che, in qualunque modo venga suonata, rimane sempre una canzone superba.
Poi e' è la gente che risponde e questo crea qualche brivido sulla schiena, ricordando alcuni concerti nella nostra penisola, dove avviene la stessa cosa.
Mercenary Song è molto bella, e la resa è notevole, grazie all'apporto delle altre voci. Il concerto si chiude con
Copperhead Road, un tripudio di voci, ritmo e partecipazione di pubblico. Una serata veramente particolare.