MATTHEW RYAN (Concussion)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Di Matthew Ryan ci siamo occupati ampiamente in occasione del suo esordio come solista, avvenuto alla fine del 1997, con l'album Mayday. Un cantautore dalla vena amara ed urbana, un disco sorprendente ed inatteso. Tipico prodotto della working class americana, Ryan ha le sue radici nella musica di Springsteen, Waits, Melleneamp e Cohen, ma il suo disco d'esordio, pur molto bello, non vende così il secondo lavoro, East Autumn Grin, fatica più del previsto prima di essere pubblicato. Un buon disco, ma di una spanna inferiore all'esordio. L'A&M lo licenzia, lasciandolo senza contratto discografico.
Solitamente il secondo lavoro di un artista è la controprova dell'esordio: nel caso di Ryan è inferiore al primo e, pur non essendo brutto, risulta un po' gonfio nei suoni e abbastanza manchevole in certe canzoni. terzo lavoro a questo punto diventa di basilare importanza per capire se il musicista ha ancora qualche cosa da dire e se la sua musica riesce a restare ad alto livello. Ryan, tornato indipendente e quindi con un budget molto ridotto, conferma, malgrado i dubbi lasciati dal secondo disco, di essere un autore vero e porta a termine il suo disco migliore. Un album intenso, notturno, interiore, espressivo, suonato con pochi strumenti, proprio per evidenziare la voce profonda e carica di emotività.
Un disco sofferto in cui l'autore entra nel profondo del cuore e riesce a portare alla luce una vena lirica intensa e coinvolgente. In poche parole Concussion è un disco di rara bellezza che ha il coraggio di proporsi nel modo più difficile. Se Mayday ci aveva annunciato un autore importante, Concussion non solo conferma i pregi di quel disco, ma accresce il valore dell'autore. Lo comprova anche il fatto che Lucinda Williams è della partita e canta con Matthew una delle canzoni più intriganti, Devastation.
Ma è l'atmosfera del lavoro, notturna, sofferta, distillata nota dopo nota a colpire, sin dal primo ascolto. Ryan ha composto una serie di ballate che entrano diritte nel nostro cuore, senza clamori o effetti speciali, solo con la voce, basso, batteria, cello, chitarra e poco più. Il disco si ascolta tutto di un fiato e si gusta centellinando ogni singola nota. Le liriche sono amare e personali: storie comuni di gente comune, e raccontano i fatti di ogni giorno. E la musica, volutamente dimessa, lascia ampio spazio alla vena dell'autore ed alla voce molto caratterizzata. Matthew Ryan, malgrado la giovane età, è maturato splendidamente. Ha lasciato il rock d'effetto per una musica di maggiore sostanza in cui ha bandito ogni suono superfluo per puntare alla canzone pura.
Canzoni elettriche, ballate acustiche, non importa tanto la veste quanto il contenuto. Concussion è un disco che riflette l'epoca che stiamo vivendo, l'amarezza di questi giorni, l'incredulità di fronte agli eventi che ci circondano, l'insicurezza che ormai ci accompagna nel corso dell'intera giornata. Canzoni per riflettere, canzoni per continuare a sperare. Nei suoi quaranta minuti offre dieci brani tutti ad alto livello. Non ci sono cadute, né momenti di noia, ma solo una vena triste, intensa, coinvolgente, che passa da ballate elettriche come Drift, malinconica ed autunnale, a quadretti invernali come Rabbit, dove la voce viene seguita solo da un'acustica ed un cello, Happy Hour, in perfetta antitesi con il titolo, con il cello di David Henry e la steel guitar di Richard Me Laurin, Too Soon to Tell, punteggiata in modo gradevole dal piano e dagli strumenti già citati. Tutte le canzoni sono avvolte da un'aura malinconica, da una struggente vena lirica, che danno al disco una struttura molto particolare.
Indubbiamente Concussion è uno dei migliori dischi di quest'anno, almeno dal punto di vista della musica d'autore, persino più intenso di quello di Leonard Cohen, come confermano anche le altre canzoni. Dal duetto con Lucinda in Devastation, in cui le armonie vocali sono suggellate da una rara comunione di intenti, alla quasi parlata Chickering Angel, per arrivare al finale con Night Watchman, elettrica e sfiorata da influenze folk blues, Somebody Got Murdered, rilettura di un brano dei Clash, ancora elettrica e più vicina alle sonorità del primo album, Shake The Tree, dove la voce si appoggia su un tappeto di suoni molto rarefatto, una voce grave, tesa, triste.