DUB MILLER (American Troubadur)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Vengo subito al sodo: questo è uno dei migliori dischi di americana usciti quest'anno. Dub Miller è un ragazzone proveniente dal profondo Texas (e già questa è una mezza garanzia), che, dopo una gavetta che lo ha portato a dividere il palco con gente del calibro di Chris LeDoux, Pat Green, Gary P. Nunn e Kelly Willis, pubblica il suo disco d'esordio, dal titolo esplicativo American troubadour. Ebbene, siamo di fronte ad uno di quei debutti fulminanti, in cui non c'è una sbavatura neanche a cercarla con la lente, quasi fosse già il quinto o sesto disco di un veterano: evidentemente le frequentazioni elencate in precedenza gli hanno fatto bene.
Miller suona country, ma non spazzatura nashvilliana, bensì un sano e vigoroso country rock ruspante, con gente come Dwight Yoakam, Alan Jackson ed il primo Steve Earle come punti di riferimento: sound tosto, bella voce chiara e limpida, ma soprattutto canzoni di primissima qualità. Batteria secca, basso pulsante, chitarre ruggenti, steel e violino sempre in bella mostra: il tutto nelle mani di gente rodata, tra cui il noto bassista Glen Fukunaga; come ciliegina sulla torta, la produzione precisa ed impeccabile dell'ormai "mitico" Lloyd Maines, che da al disco un suono che non ha nulla da invidiare agli album delle major. Si parte nel migliore dei modi con These old boots, ariosa ballata introdotta da una chitarra acustica limpida e da un violino nostalgico, poi entrano la voce e la ritmica e subito veniamo coinvolti emotivamente dal brano, fra i più belli ascoltati quest'anno (almeno nell'ambito roots). Stesso discorso per Livin' on Lone star time, uptempo di grande presa, che ha in più la forza epica tipica di Joe Ely; Coming home to you, con il violino a guidare il tempo, ha un ritmo irresistibile, un ritornello da applausi e la solita prestazione vocale ottima da parte di Dub.
Un inizio di disco con tre canzoni di questo livello non lo sentivo da un po' di tempo. Paint me on velvet è un valzerone texano come solo un texano sa fare, con un profumo di confine che non guasta (e qui mi viene in mente ancora Joe Ely); la saltellante The dancer ci porta in piena festa country, con canti, balli e tanta birra fino a tarda notte.
Postcard from Paris è un'intensa ballata cantata con il cuore in mano, Dub, la sua chitarra, una fisarmonica sotto il chiaro di luna; la bella Nine miles North of Mason ricorda certe cose di Guy Clark; Miles and memories è puro country rock, molto trascinante: chitarre al posto giusto, batteria secca, voce in palla e via! End of story è un'oasi pacificante, It's alright inizia come un brano di Steve Earle; la ruspante Truck driving man farebbe la felicità di Billy Joe Shaver, mentre la finale Paying the fiddler è un epico racconto di confine, che potrebbe benissimo uscire dalla penna di Tom Russell: melodia da brividi per uno dei brani più belli del disco. Che altro dire su Dub Miller? Uscite e… cercatelo!