I
Bottle Rockets, una delle prime formazioni di Americana, sono stati un gruppo pionieristico, al pari degli Uncle Tupelo. Nati all'inizio dei '90 hanno edito due dischi di grande spessore,
Bottle Rockets e The Brooklyn Side, publicati dalla defunta East Side Digital, poi sono approdati all'Atlantic che ha stampato l'ottimo
24 Hours a Day, che però non ha minimamente promosso. Delusi sono passati alla indie Doolittle per la quale hanno pubblicato
Leftovers e il grintoso
Brand New Year. Il tutto nell'arco di sei anni, dal 1993 al 1999. poi il silenzio.
Riappaiono ora, sotto l'ala protettiva della Bloodshot di Chicago, una delle prime ed una delle migliori etichette di alternative country, con un album in omaggio al grande
Doug Sahm. Il gruppo, capitanato da
Brian Henneman, con
Mark Ortmann, Tom Parr e Robert Kearns, esegue in modo sanguigno il repertorio del texano e rivisita con il cuore in mano una serie di canzoni di indubbio spessore. La rilettura dei Bottle Rockets è più rock e pur mantenendo elementi tex mex nelle canzoni, invece della fisarmonica o del farfisa di Meyers, usa chitarre e chitarre.
Sicuramente la via scelta dal quartetto è più difficile ma, proprio per questo, il disco funziona molto bene: infatti le riletture sono personali, fatte di gettito, con le voci di Henneman e Kearns che riprendono alcune delle più note canzoni di Sahm e le rivedono da capo a piedi. Henneman riesce quindi a portare a termine un disco tosto e vigoroso, nella tradizione dei Rockets, anche se la materia esce spesso dagli schemi del gruppo. L'idea è comunque ottima: non solo ritroviamo i
Bottle Rockets, una band che consideravamo perduta, ma riscopriamo alcune canzoni oscure di Doug Sahm come
Nitty Gritty o Be Real che avrebbero meritato certamente più fortuna.
Un solo appunto: Brian Henneman ha una voce forte ed orgogliosa, mentre Robert Kearns ha qualche ottava in meno e spesso la sua voce manca del mordente necessario per rendere in modo giusto le composizioni. Ma è una quisquiglia visto che la maggior parte dei brani è cantata da Brian e che, comunque, il suono è sano e vigoroso guitar rock, come piace a noi vecchi Buscaderos.
Floatway inizia con il piede giusto.
Chitarre vibranti e la voce potente, da sudista incallito (la band ha sempre avuto parecchi addentellati con il
southern rock), di Henneman su tutto. Il riff iniziale è degno della grande tradizione rock, sontuoso e vibrante. Un blues di frontiera, ma pieno di carattere.
Mendocino cambia rispetto alla versione originale, ma è ugualmente vitale e grintosa. Brian canta come Doug e la band gira bene dando nuova linfa vitale alla mitica tex mex song: le chitarre di Brian e Tom fanno il verso al farsfisa di Meyers e la canzone si gusta tutta d'un fiato.
Ritmo e grinta: era da un po' che non ascoltavo un album con questa forza dirompente.
Be Real ci riporta in Texas, il suono è country e la band lo alleggerisce parzialmente: già bella nella versione originale, è forse superiore in questa rilettura in cui anima e cuore non mancano.
At The Crossroads è la canzone più dylaniana di Doug Sahm. Henneman & band mantengono il brano molto aderente all'originale, ma la voce intensa del leader da uno spessore diverso alla canzone che si tinge profondamente di rock, perdendo in parte l'aura dylaniana originale.
She's About a Mover, il primo hit del quintetto di Sahm, è rifatta con altrettanto carattere.
Ritmo acceso, chitarre ed organo in evidenza, e la canzone mostra di essere ancora attuale, decisamente attuale.
Lawd, I'm Just a Country Boy in This Great Big Freaky City ci riporta in un ambito country con la voce di Kearns, meno drammatica di quella di Brian, che si trova a suo agio con una brano diretto e pulito. Il gioco delle chitarre è essenziale, con piccoli tocchi, lavori di fino ed assoli da manuale.
Nitty Gritty sta tra Messico e Texas e, grazie ad un suono robusto e alla voce di Brian, ci riporta nel festoso mondo di quel pazzo vagabondo di Sahm. I Rockets catturano in pieno l'atmosfera dei dischi del Quintetto con una rilettura vigorosa.
Song of Everything è di nuovo rock: meno bella delle precedenti, più bluesata e monotematica, si fa comunque ascoltare.
Sunday Sunny Mill Valley Groove Day ha il tipico attacco delle canzoni di Doug, una atmosfera rilassata che la voce di Robert non riesce a vitalizzare più di tanto.
Due episodi leggermente sottotono. Ma
Stoned Faces Don't Lie rimette le cose al suo posto, una classica ballad del texano, riletta in modo tosto e cantata da Brian con le corde giuste. Anzi la canzone stessa è una riscoperta, non me la ricordavo così bella. I
Bottle Rockets mostrano di avere ancora grande carattere. II disco si chiude con il rock pulsante di
You Can't Hide a Redneck, la rilassata e malinconica
I Don't Want to Go Home e la tonica e chitarristica
I Am Not That Kat Anymore.
Bottle Rockets e Doug Sahm, un matrimonio riuscito.