LEGENDS OF RODEO (A Thousand Friday Nights)
Discografia border=Pelle

  

  Recensione del  26/02/2004
    

Esponenti della rigogliosa scena rock del South Florida, che ha visto nascere intorno a sé un crescente interesse, sia da parte dei circuiti radiofonici che delle stesse major discografiche, i Legends of Rodeo si sono scelti un nome ed una iconografia di copertina che potrebbe trarre facilmente in inganno. Le chitarre, orgogliosamente sollevate in aria nella cover di A thousand friday nights, si fanno sentire parecchio lungo tutto il disco, ma, superato il trabocchetto iniziale, si entra nel cuore di un disco poco "southern" ed assai carico di avvisaglie hardrock, modellato probabilmente su una produzione un poco di maniera, eppure nel complesso positiva per la capacità di abbracciare tonalità distanti dagli attuai gusti del grande pubblico, antitetica anche nei confronti della nuova invasione postgrunge e numetal che sembra essersi impossessata delle charts americane in questo periodo.
C'è una forte propensione a delineare ballate rock dall'incedere epico (l'ottima Davil started rock and roll o Baltimora Blues), anche se a tratti un po' sopra le righe (Saint Street), complice la voce di John Ralston, squillante e alla lunga irritante. Nella più classica delle formazioni a due chitarre (lo stesso John Ralston e Nathan Jezek) i Legends of Rodeo non si decidono ad assumere una posizione netta, lasciandosi guidare più dall'istinto che dai calcoli commerciali: le loro canzoni non mancano affatto di un consistente appeal radiofonico (American love potrebbe conquistare molti teenagers) ed anche la produzione non si fa pregare per assecondare le esigenze del mercato, ma le radici classicamente seventies della band prendono il sopravvento in più di un'occasione, mettendo in salvo l'ispirazione.
Non sono rivoluzionarie le melodie di Crazy eight e The flags, brillanti ballate rock da strada maestra modellate sugli insegnamenti di Tom Petty (e magari di qualche recente discepolo come i Wallflowers), ma hanno il pregio di distinguerli dal resto della ciurma e di fornire al disco ed alla loro carriera qualche prospettiva più ampia. Altrimenti il rischio che corrono è di appiattirsi sul sound ruvido e squadrato di Hold on nothing, o peggio sull'anonimo intruglio di hardrock e punk di Nothing better to do e Bartender. Devono crescere ancora, ma sono sulla buona strada.