L'apocalisse non si spiega, non si discute. Non lascia alternative, neanche se ti chiami
Bruce Springsteen e in tutto il mondo sanno che sei il Boss. New York, 11 settembre 2001, impossibile fuggire:
Bruce Springsteen non poteva evitare il confronto, senza dubbio il più difficile nella sua storia di musicista e di uomo, se non altro perché il suo disco più recente era
Live In New York City, perché il suo ultimo album di canzoni inedite, prima di
The Rising, è stato
The Ghost Of Tom Joad, perché al Madison Square Garden ha suonato per una settimana di fila
American Skin (41 Shots). Dopo l'11 settembre 2001 è ancora più difficile vivere nella "pelle americana" e
Bruce Springsteen con
The Rising ha interpretato e reso pubblico un sentimento diffuso, profondo, popolare. Non si tratta di complotti o di intrighi, della disinformazione dell'informazione (scusate, ma non è un gioco di parole) o delle mille paranoie che ci ammorbano quotidianamente, perché, come ha detto molto lucidamente Stephen King, "questa è la realtà, è quello che succede quando aerei di linea carichi di carburante finiscono contro i palazzi".
Lapidario e tagliente, come molte delle parole di
The Rising: Bruce Springsteen racconta il dramma guardando dal basso verso gli
Empty Sky, e non importa, ormai non più, chi è colpevole di cosa. C'è solo un accenno, in
Lonesome Day, ad un tradimento difficile da digerire, ma non è questo il punto.
The Rising è un disco che prende posizione, articolando un pensiero chiaro, elementare, nitido: sono più importanti gli innocenti. Per un narratore come lui, sempre attento a quello che succede nelle strade e nei cieli, più che nei palazzi e nei governi, l'apocalisse dell'11 settembre 2001 è un'alluvione di dolore di dolore e di lutti: mogli senza marito, madri senza figli, amici senza amici. Gente che stava lavorando, che tirava avanti aspettando un giorno di sole, che è morta per dovere o per caso.
Questa volta non c'è il rischio di un'interpretazione differita o strumentale: la patria, l'America, resta un passo indietro, nell'ombra, perché nei giorni dell'apocalisse c'è posto solo per la forza, la fede, la speranza, l'amore. Queste parole ricorrono in continuazione in
The Rising, un disco popolato da fantasmi tenuti in vita dai ricordi, dalle preghiere, da canzoni che sembrano implorazioni. Non c'è altro, ed è tutto quello che conta, perché poi, in una riga di
Nothing Man, Bruce Springsteen ammette, ancora una volta, quello che tutti non osano dire: ovvero, dopo l'11 settembre 2001, "nulla è cambiato".
Viviamo in un mondo che ormai nella sue meschinità assorbe anche le apocalissi e la realtà più triste, a distanza di un anno e con
The Rising che suona a tutto volume, è che l'apocalisse non c'è stata, almeno non nel senso biblico di rivelazione. È rimasto solo il disastro e un buco di dolore difficile da colmare.
The Rising ci prova con tutta la forza e i limiti del rock'n'roll, con versi spogliati di tutti i personaggi tipici dello psicodramma springsteeniano perché è un disco based on a true story, e chiunque tra gli amici e i parenti di Bruce Springsteen o della E Street Band potrebbe essere il protagonista di
You're Missing o Lonesome Day o Into the Fire.
Ci sono demoni all'orizzonte e nelle casette postali (basta un niente d'antrace in una busta, e anche questa è realtà, direbbe Stephen King), città in macerie e strade dove è meglio girare armati, se proprio bisogna stare in giro, ma non ci sono ira o indignazione.
The Rising suona più come un'invocazione che come una certezza o un'incitazione. Anche per questo, paradossalmente.
The Rising somiglia più ad un concerto di Bruce Springsteen & The E. Street Band che ad un suo disco. C'è un classico rock'n'roll di apertura (
Lonesome Day), c'è un po' di altalena di emozioni nella prima parte, un paio di esperimenti nel mezzo del guado e poi un finale da fuochi d'artificio e mille brividi.
Il crescendo è una costante: vanno in crescita quasi tutte le canzoni, cresce
The Rising mentre lo si attraversa da
Lonesome Day a My City In Ruins e cresce ascolto dopo ascolto, perché dal punto di vista sonoro è veramente uno sforzo complesso e richiede tempo, se non altro perché si tratta di
quindici canzoni e settantatre minuti. Si va con
Lonesome Day, un tipico brano da E Street Band, con un sacco di tastiere, un bel sound corposo e molte voci, tutte insieme, quasi a ribadire, da subito, l'essersi ritrovati. Ha anche qualcosa di già sentito, ma è solo l'inizio, e già con
Into The Fire arriva la prima sorpresa: inizia con un leggero groove elettronico, una chitarra, acustrca e slide, un vago sentore di Ry Cooder rivisitato in lungo e in largo.
Poi un attacco clamoroso, e questa è solo roba da E Street Band che suona ad occhi chiusi. Una vera e propria scossa di terremoto. Le vibrazioni della E Street Band portano una fisarmonica sullo sfondo che non si ferma un attimo e ancora un sacco di background vocals, molto gospel. Un colore che torna in continuazione in
The rising insieme a quelle sfumature rootsy che avevamo sentito dal vivo in
Mansion On the Hill. In
Sunny Day, per esempio, vengono rispolverate le intuizione del John Mellencamp tra
The Lonesome Jubilee e Big Daddy: violino e fisarmonica in primo piano, un super sassofono: concreta e avvincente. Più cruda e aspra
Nothing Man, una canzone che lascia ben poca speranza perché gli eroi sono stati dimenticati e, come direbbe Sam Shepard, 'la gente qui finge di essere quello che è".
Nell'aria, con quelle tastiere e le chitarre acustiche, c'è il mood di
My Beautiful Reward mai i paesaggi bucolici di
Lucky Town sono bruciati e anneriti, disintegrati insieme ai romantici you and me che davano senso ad una vita intera. Una canzone dolorosa e spigolosa. Dopo due accordi di introduzione, acustici,
Countin' On A Miracle spiega cos'è la E Street Band: prendete
All Or Nothing At All (da
Human Touch e fatela suonare a loro oppure
My Love Will Not Let You Down dal vivo dell'ultima tournée e troverete il filone da dove arriva.
C'è un break a sorpresa, dove Bruce Springsteen fa il furbo con gli archi, ma la sostanza è un poderoso rock'n'roll. La forza di
Countin' On A Miracle è anche l'ammissione implicita che, è vero non esiste la E Street Band senza Bruce Springsteen (e non potrebbe essere diversamente), ma il legame è più profondo, perché proprio Bruce Springsteen ha bisogno di sentirsi dentro una rock'n'roll band (e in giro non c'è niente di meglio, Tom Petty & The Heartbreakers a parte), oggi più che mai.
Sulla stessa linea
Further On Up the Road: scritta prima dell'11 settembre, ma già carica di presagi che riletti in questa chiave sembrano quasi profetici. Molto carica, la E Street lanciata come un treno: da un punto di vista sonoro Bruce Springsteen e la E Street Band non sono mai stati così efficaci. Il lavoro di
Brendan O'Brien è stato soprattutto quello di rendere l'intensità di questa unione di lunga data, senza forzature. C'è la batteria in evidenza, sparata in faccia, ma senza i riverberi e gli echi di
Born In The USA, solo tantissimo ambiente.
Pura energia. Un paio di canzoni hanno invece il gusto e l'atmosfera degli hit degli anni Cinquanta, con il wall of sound di Phil Spector rivisto da Brendan O'Brien:
Empty Sky e Let's Be Friends (Skin to Skin) sono guidate dal pianoforte in evidenza e, nella seconda,i violini, e un sassofono che quasi bisogna aspettarselo abbelliscono un'altra invocazione in chiave rock'n'roll. Gli esperimenti o le divergenze, anche rispetto alla coerenza stessa di
The Rising, sono
World's Apart e The Fuse, due canzoni in cui Bruce Springsteen lancia segnali di attenzione verso territori in gran parte inesplorati.
Worlds Apart comincia con ritmi tribali, un groove di percussioni (reali e virtuali), un coro pakistano che canta un canto qawwali, giusto un frammento di cultura islamica.
Disorienta un po' sentirlo in questo contesto, ma se ci si pensa bene, e senza preconcetti, bisogna rendere onore al coraggio di Bruce Springsteen, visto che al momento musulmano è sinonimo di terrorista. L'esperimento dura giusto una strofa, poi arriva la E Street Band e ci si sente a casa, anche se c'è "solo polvere e buio" perché le chitarre elettriche, l'armonica, il violino (viva l'abbondanza) non lasciano tregua. Invece
The Fuse è un punto di domanda in mezzo al disco: è una sorta di spoken word con una base densa ma indecifrabile, chitarre compresse negli effetti, non c'è traccia di canzone, solo "diavoli e buchi neri all'orizzonte". È anche un po' uno spartiacque, perché poi nella parte finale di
The Rising matura tutto il meglio di Bruce Springsteen e della E Street Band. Basta sentirla una volta,
Mary's Place e già diventa un classico.
Uno standard di puro rhythm and blues, con la E Street Band in overdrive, un posto dove stare bene con il proprio "disco favorito sul piatto" e dimenticare, magari solo per quei cinque minuti che dura, tutte le brutture di un universo senza amore. È corale, piena di stacchi, di fiati, di voglia di vivere. Straordinariamente Bruce Springsteen. Con
You're Missing, Bruce Springsteen si avvicina per certi versi alle ballate di Van Morrison per un'elegia commovente, organo e violini che sono una panacea al dolore e a quel vuoto a cui risponde
The Rising. È la
No Surrender di questo secolo: una potentissima preghiera pagana, perché anche se il rock'n'roll, non è una fede, è sicuramente qualcosa che non si spiega nella normale logica. Ancora di più in
Paradise, che è inarrivabile.
Non si tratta di poesia (e comunque contiene alcuni dei versi più belli che Bruce Springsteen abbia scritto) o della sua interpretazione (non so se esistono le parole giuste per descriverla), ma del potere che hanno alcune, pochissime canzoni, di stabilire un collegamento diretto con le emozioni, tra chi canta e chi ascolta. Una magia, volendo. La sigla finale è tutta soulful:
My City in Ruins è in una versione sontuosa, con tanto di archi e un organo che sembra di averlo in casa, ancora una grande canzone.
The Rising è un disco forte, denso, ingombrante, e per niente lineare, come se Bruce Springsteen avesse inseguito i fantasmi, più che le canzoni.
Con tutta l'energia, che ci mette dal vivo, e infatti
The Rising è altrettanto diretto e rumoroso. Si nota il silenzio, quando anche l'ultimo suono di
My City in Ruins se ne va. Si resta con il sogno di una vita, ed è tutto lì.