JAMES McMURTRY (Saint Mary of the Woods)
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  Recensione del  26/02/2004
    

James McMurtry è un figlio d'arte. Il padre, Larry McMurtry, novellista e sceneggiatore, è stato un buon maestro. Gli ha comprato una chitarra quando aveva sette anni e la madre, una professoressa di inglese, gli ha insegnato come suonarla. James ha esordito alla fine degli anni ottanta grazie alla produzione di John Mellencamp con l'eccellente Too Long in the Wasteland, poi ha proseguito incidendo, più o meno ogni tre anni, altri quattro dischi: Candyland, Where'd You Hide the Body, It Had to Happen, Walk Between the Raindrops. Da quest'ultimo, 1988, sono passati quattro anni.
La scorsa estate sono stato nello studio di Austin dove James stava incidendo questo disco: l'ho sentito suonare per qualche minuto, poi lui è uscito dalla sala di regi r strazione e abbiamo parlato bre i: veniente. Si ricordava che il Busca lo aveva messo in copertina assieme a WilJìe Nelson, e questo ha facilitato non poco la nostra breve discussione. Taciturno, abbastanza introverso, James mi ha dato l'idea di essere assolutamente scontento dello show biz e di tutto quello che gli sta attorno. Non ama il palcoscenico, non vuole assolutamente mettersi in mostra.
Il suo nuovo album, Saint Mary of the Woods (Bel titolo, Santa Maria dei Boschi) esce senza clamori, anche se sono quattro anni che non incide: su Internet non ci sono tracce del disco. La stampa lo ignora, almeno certa stampa, e questo è tutto sommato un bene. Poi penso al battage che ha preceduto l'uscita di The Rising del Boss, con tutti quei siti che mandavano notizie vero o false, brani scaricabili o meno, e non riesco a non pensare che c'è qualche cosa che non quadra. Allora suono e risuono il disco di James, un personaggio a me particolarmente caro anche se in passato avevo criticato sia Candyland che il disco seguente, e lo apprezzo sempre di più ad ogni ascolto.
Prima di tutto il suono: un suono potente, diretto, essenziale. Niente archi, niente tastiere elettroniche, niente di niente: chitarra, basso e batteria, qualche passaggio di organo e di piano. Il resto lo fa la musica. La musica di James è scarna, disossata, desertica e descrive alla perfezione le strade secondarie d'America, le backroads, a testimonianza della sua volontà di agire ai margini della notorietà. Fa la sua musica e non vuole i riflettori addosso, non li vuole assolutamente. La sua musica non parla di New York o Los Angeles, ma dell'Oklahoma, della parte più desertica del Texas, dell'Arizona che non conosciamo.
I caratteri che popolano questo disco sono presi dall'America più marginale, sono reali e rabbiosi: lavoratori nei campi di petrolio, bikers, ragazzi innocenti, persone che hanno sempre vissuto nella provincia più sperduta, gente che non conosce le metropoli, solitari, hobos, perdenti. Un microcosmo che sta sparendo nelle canzoni, che non interessa più i grandi autori, presi spesso più dal pubblicizzare i propri prodotti che dal fare un vera disanima della realtà che li circonda. James nota le cose marginali, crea piccoli acquarelli pieni di malinconia ed amarezza, e li dipinge con la sua chitarra acida, aiutato solo da una solida sezione ritmica (Ronnie Johnson e Darren Hess) e poco più. La produzione è dello stesso McMurtry. Saint Mary of the Woods ha due punti di riferimento basilari: la voce secca e talvolta monotematica dell'autore e la sua chitarra intensa e sudata, che sparge note taglienti e scarnificate.
Il suono è tipico di una jam notturna, con gli strumenti che ogni tanto se ne vanno per la tangente, un suono diretto e potente. Rock al cento percento. Dieci canzoni, cinquantadue minuti. Dry River, una ballata classica con un tempo indolente e break di chitarra potenti, apre il disco nel modo migliore. Come dice lo stesso autore "è un tributo allo spirito ed andrebbe benissimo in un disco di Dave Alvin". C'è lo stesso spirito indomito che alberga nei dischi del chitarrista californiano.
Un brano di grande spessore che chiarifica subito il valore del disco. Valley Road è puro rock and roll: voce, chitarra, basso e batteria. Dura, elettrica, vibrante: non concede nulla e si avvale di un piano honky tonk e di una base melodica monotematica. Più caratterizzata, Saint Mary of the Woods è una road song dal tempo maestoso, suonata in modo intenso. Una ballata elettrica che è un'ode alle strade blu: lenta, cresce nota dopo nota, e rende perfettamente l'idea dei paesaggi che descrive . Out Here in the Middle è una canzone tersa, in cui ci sono vaghe influenze roots.. La canzone ha un riff di sicuro effetto che non snatura la forza intrinseca e la dirittura morale del brano.
Molto più unitario del precedente, l'album propone Lobo Town un brano rock venato di blues. Una canzone senza una melodia ben precisa che ha dalla sua due elementi: il carattere dell'autore e la forza della chitarra che lancia strali degni di una grande rock band. L'organo di lan McLagan apre la discorsiva Broken Bed, altro lucido esempio della vigorosa scrittura dell'autore. Voce, chitarra, basso e batteria: un suono che è una sferzata di energia ed una bella melodia, orgogliosa e molto caratterizzata. Anche Red Dress appartiene allo stesso filone: il blues è parte integrante di un brano che, pur non avendo una linea melodica particolarmente significativa, si mantiene sempre ad un ottimo livello.
Notevole invece Gulf Road, ballata splendida (bella la parte centrale con la chitarra acustica che si contrappone all'organo) che conferma lo stato di grazia dell'autore. Gone to the Y parla dei problemi caratteriali tra due fratelli e mischia il suono di una chitarra acustica con una base melodica cristallina: un'oasi semi acustica in un disco che è un torrente ad alta tensione.
Chiude l'album, il più intenso della discografia del texano, la lunga (quasi nove minuti) Choctaw Bingo. McMurtry mischia il blues, Bo Diddley ed il suo senso del rock e lascia andare la chitarra su una canzone che si differenzia dalla sua produzione usuale, una jam live in studio. Una road song che parla di viaggi su highways che si perdono nella pianura sterminata, nell'heartland, che lui ha sempre descritto. Un piano honky tonk diventa l'alter ego della voce, mentre il beat energico ricorda i Rolling Stones primi settanta.