Nell'arco di una carriera che ormai ha tagliato il ragguardevole traguardo dei 40 anni, Neil Young ha avuto modo di sorprendere i suoi estimatori (talora entusiasmando, talora destando non poche perplessità) innumerevoli volte. Non pago di una carriera e di una produzione discografica che ormai sono monumentali, il suo nuovo lavoro, Greendale, risulta essere una delle imprese più avventurose, coraggiose e, in definitiva, entusiasmanti dell'artista.
Greendale non è solo un disco, ma nemmeno una "rock opera", bensì una "musical novel", ovvero una storia che Young vuole raccontarci e che ha sviluppato immaginando un'ipotetica cittadina della California del Nord nella quale infuria la mitologica battaglia tra il bene e il male con imprevedibili ripercussioni sui suoi abitanti.
La narrazione si snoda in particolare attorno alle vicende della famiglia Green (della quale esiste pure un albero genealogico e ogni personaggio coinvolto ha una "profondità" che può essere scoperta visitando il sito ufficiale
http://www.neilyoung.com) e sullo sfondo c'è un'America tradita nel nome della corruzione e dell'ingordigia delle grandi corporazioni, ma anche dei singoli individui. Non solo: se in apparenza Greendale sembra un tranquilla cittadina borghese americana, in sostanza la vicenda sembra uscire direttamente dalla sceneggiatura di
Twin Peaks, mettendo in risalto una realtà ben più inquietante e addirittura tragica.
Il racconto è inoltre disseminato da riferimenti alla vita privata di Young: ci sono un ranch con una coppia di anziani agricoltori, una giovane nipote attivista ecologista, storie di droga e di morte, il diavolo con giacca rossa e panama bianco, un pittore hippie psichedelico, i conflitti con i media, l'Alaska immacolata messa a repentaglio dalle multinazionali petrolifere, la brutalità dell'FBI, la dolcezza e l'incrollabile forza dei rapporti personali tra i componenti la famiglia Green.
Una storia avvincente con un finale un po' naif, ma colmo di un'idealistica (sebbene un po' semplicistica) speranza (la fuga in Alaska), raccontato con un fiume di parole e quasi ottanta minuti di musica. Per assicurarsi che il "senso" della storia fosse colto appieno Young ha approntato un film che fungesse la "colonna visiva" del disco in questione, una sorta di fiction a episodi (ma consequenziali tra loro) girato in proprio con membri del proprio entourage e che verrà accluso come DVD in una speciale versione limitata dell'album. Tutto questo lo sapevamo da tempo e Young aveva fatto ascoltare in anteprima queste canzoni in una scarna veste acustica al "suo" pubblico nel corso dell'apprezzata tournée europea della scorsa primavera.
A scanso di equivoci e per sgombrare il campo da possibili equivoci, sarà bene dire subito che
Greendale appare come il miglior disco di Young dai tempi di
Sleeps With Angels, o perlomeno il suo lavoro più "lucidamente" incisivo degli ultimi dieci anni. Registrato con una versione "ridotta" dei
Crazy Horse (manca il chitarrista
Frank Sampedro), l'album ha un'inconfondibile ossatura elettrica retta da un sound vicino alle cose più rilassate di
Zuma: l'iniziale
Falling From Above ha la stessa pigra ma ruvida indolenza di
Don't Cry No Tears, mentre trascorrono quasi tre minuti di sognante assolo elettrico (ricordate Cortez?) prima che la voce di Young arrivi a narrarci la drammatica storia di Carmichael, poliziotto assurdamente ucciso durante lo svolgimento del proprio lavoro.
Greendale è un disco che non ha fretta, che va assimilato lentamente lasciandolo depositare "sottopelle" e pure Young si prende tutto il tempo necessario per raccontare la sua storia anche a rischio di risultare prolisso o ridondante. I brani sono infatti mediamente molto lunghi, alcuni appaiono addirittura interminabili: ad un primo approccio i tredici minuti di
Grandpa's Interview sembrano eccessivi e procurano qualche sbadiglio, ma ascolto dopo ascolto il tono quasi discorsivo comincia ad assumere i connotati di un irrinunciabile talking blues dolente e ipnotico con aperture melodiche, forse un po' "già sentite", ma di grande effetto. Il blues torna spesso come involucro ideale di queste storie: alla struttura ultraclassica di
Double E fa da contraltare la saltellante e ripetitiva
Devil's Sidewalk, novella
For The Turnstiles in salsa elettrica condita da un irresistibile break chitarristico, da un'armonica bluesy distorta in sottofondo e da un divertente coretto femminile.
Ad un primo ascolto l'album potrebbe risultare un po' monocorde per il carattere fortemente narrativo dei brani e per la scarna strumentazione ridotta a chitarra, basso e batteria (in questo senso è interessante notare come l'assenza di Sampedro influisca sul caratteristico sound dei Crazy Horse, qui più rilassato e meno aggressivo rispetto a dischi come
Rust Never Sleeps o
Ragged Glory). Tuttavia tra le dieci composizioni spiccano alcune gemme assolute, come la sommessa
Bandit, unico brano alla chitarra acustica (peraltro accordata in modo che corde basse vibrino sul manico con un sinistro effetto "acoustic fuzz") cantata da Young con un registro di voce bassissimo e quasi sussurrato (qualcosa a metà strada tra
Ambulance Blues e
Music Arcade).
Billy Talbot e
Ralph Molina forniscono anche qua la loro scarna e inconfondibile base ritmica, come anche nella funerea
Grandma Brings Dinner, eseguita da Young all'organo a canne. Il finale è in crescendo, con la lunga ballata elettrica
Sun Green (dodici minuti), impreziosita da un assolo stupendo e dalla consueta armonica distorta in lontananza. L'uso del megafono in alcuni passi è funzionale alla narrazione (
Sun Green è la bella e giovane attivista che si batte per la salvaguardia dell'ecosistema dell'Alaska, una sorta di Don Chisciotte postmoderno al femminile) e prepara il terreno all'apoteosi finale di
Be The Rain, una canzone diretta e ficcante che entrerà di diritto tra i grandi classici younghiani (non una nuova
Hey Hey,
My My o una
Rockin' In The Free World, ma poco ci manca).
Il brano "rotola" che è una meraviglia grazie alla sua semplicità melodica e ripetitività armonica, ma anche agli interventi corali che fanno da contraltare ad alcuni facili slogan di grande presa ("Abbiamo un lavoro da fare, dobbiamo salvare la Madre Terra") molti dei quali urlati da Young al megafono (niente paura: nulla a che vedere con le stranezze elettroniche di Trans). Il finale della storia è allo stesso tempo apocalittico e liberatorio, e dopo quasi ottanta minuti di "messaggi subliminali" (qua e là emerge spesso il pensiero di Young su alcuni temi fondamentali dell'attualità come guerra, interessi economici, manipolazione dei media) l'album termina con un invito ad essere "come pioggia" che apparirà criptico solo a chi non ha voglia di approfondire i contenuti della storia.
Tutto il progetto è infatti una sorta di gioco delle scatole cinesi che ad ogni ascolto offre qualcosa in più. Va inoltre detto che ascoltare queste canzoni mentre scorrono le immagini del film (
Jim Jarmusch l'ha definito una delle opere cinematografiche più innovative degli ultimi anni) da davvero un senso in più (non necessariamente "diverso") al tutto, e certe lungaggini strumentali o l'eccessiva verbosità di alcuni episodi diventano addirittura necessari.
Greendale è un disco assolutamente non conciliante che piacerà di più ai fan del canadese che non all'estimatore "distratto", anche perché è un album con una "profondità": parla dell'America di oggi e ce la fa capire, ma difficilmente l'America di oggi lo recepirà e lo capirà (come del resto nel 1974 quasi nessun americano riuscì a capire un album "profondo" come
On The Beach). Resta un solo dubbio: quale patto col diavolo avrà mai stipulato il vecchio Neil per continuare a stupire i suoi fan in questo modo?