STEVE FORBERT (Rock while I can Rock: The Geffen years)
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  Recensione del  31/03/2004
    

Nato a Meridian nel profondo sud del Mississippi, cresciuto in una terra in cui il blues è come l'acqua e le zanzare, Steve Forbert è emigrato a metà degli anni 70 nelle strade di New York rivivendo la dinamica intinerante di tal Robert Zimmermann e divenendo uno dei primi Nuovi Dylan in circolazione (al riguardo leggetevi il libro Alias Bob Dylan di Marco Denti, Selene Edizioni). Il provinciale che conquista la città, cantando di vagabondi con una chitarra è storia vecchia ma a metà degli anni settanta funziona ancora.
Un primo disco (Alive On Arrival) che lo leva dalla strada (Grand Central Station, March 18, 1977 sono le vive impressioni di un busker), qualche concerto al Cbgb al fianco di punks e nuove ondate rock e poi una romantica ballata, Romeo's Tune, dedicata alla cantante delle Supremes Florence Ballarci morta a 32 anni, che conquista le radio americane. Sembra fatta e invece no. Un paio di altri album, tra cui l'interessante Little Stevie Orbit e poi una fastidiosa causa legale con la Columbia che lo tiene bloccato per parecchi anni, impossibilitato a pubblicare nuovi dischi. Forbert scivola nel limbo dei dimenticati, gli anni ottanta non sono benevoli con poeti e beatnicks e il suo destino segue quello di altri Nuovi Dylan come Willie Nile, Jack Hardy, Elliott Murphy.
Non è l'Europa a salvarlo ma Nashville dove mette insieme una live band, i Rough Squirrels e ricomincia da capo suonando in piccole città, club di provincia, strade secondarie. Nel maggio del 1987 è al Lone Star Cafè di New York in compagnia del vecchio gruppo di Buddy Holly, i Crickets, quando fa la conoscenza del bassista della E Street Band Garry Tallent che gli si offre come produttore per un nuovo disco.
Detto e fatto. Risolti i problemi con la Columbia, Forbert e i Rough Squirrels (Clay Barnes alla chitarra, Danny Counts al basso, Paul Errico alle tastiere, Bobby Lloyd Hicks alla batteria) si trasferiscono nello studio di Tallent a Long Branch nel New Jersey dove incidono Streets Of This Town disco che come il seguente American In Me del 1992 viene pubblicato dalla Geffen. Rock While I Can Rock: The Geffen Years è la riesumazione di quei due album, purtroppo sottovalutati al tempo, in un unico Cd con tanto di rimasterizzazione, booklet, fotografie e l'aggiunta di un brano, The Only Normal People, originariamente edito solo in Inghilterra come bside di Running On Love/Mexico.
Una riedizione intelligente perché offre la possibilità di recuperare due dischi di Forbert poco conosciuti, che non hanno nulla da invidiare in termini di qualità ai primi, più incensati, lavori dell'artista di Meridian. Streets Of This Town che nell'edizione del 1988 godeva di una accattivante copertina in bianco e nero con la skyline di una città osservata dietro una rete metallica con l'ombra dell'artista (che non si vede) proiettata sull'asfalto, è un ottimo disco di rock urbano che prende spunto dallo stile troubadour e folkrock di Forbert e viene permeato da quel rock n'roll sound di cui Garry Tallent è promotore.
Si respira aria di East Coast, i testi delle canzoni non sono ottimisti come agli inizi di carriera, sono amari, riflettono le vicissitudini legali di Forbert, l'entusiasmo e l'innocenza di brani come Romeo's Tune sono sparite e si sono ripiegati in rabbia e in una sorta di rassegnazione adulta anche. Streets Of This Town non è comunque un album cinico perché da qualche parte (As We Live and Breathe, Hope Faith and Love e Search Your Heart) continua ad esserci la fede verso lo spirito umano e allora questo disco suona un po' come il personale Darkness On The Edge Of Town di Steve Forbert. Lo ricordano la desolazione degli ambienti, il bianco e nero dei paesaggi, la delusione verso il mondo della musica, la crudezza elettrica di certe ballate.
Alcune davvero notevoli come On The Streets Of This Town e Mexico, le cose migliori accanto ai potenti rock stradaioli (c'è lo zampino di Bob Clearmountain nel mixaggio) di Running On Love e Don'Tell Me (I Know). Più ridente è il seguente American In Me registrato a Los Angeles con la produzione di Pete Anderson (Dwight Yoakam e Michelle Shocked) e con musicisti come Clay Barnes, il chitarrista Jeff Donavan (Shocked), i bassisti Dusty Wakeman del giro dei primi Little Feat e Bob Galub, il tastierista Skip Edwards (Firefall, McGuinn/Hillman/Clark) e i percussionisti Lenny Castro e Alex Acuna. American in Me è un altro buon album, fresco e leggero anche se Streets Of This Town mantiene un fascino da Bmovie urbano difficilmente ripetibile.
Il nuovo disco risente in maniera netta del tocco di Pete Anderson che diminuisce il peso specifico del sound in virtù di una maggior immediatezza e di un calore ritrovato nelle canzoni. Forbert vive una buona situazione famigliare ed è diventato padre, i testi risentono di questo stato di grazia. In pratica lo stile di Forbert ritorna ad essere quello di un agile folkrock melodico, ora sottilmente venato di country e rockabilly ora deciso a farsi carico di uno schietto rock urbano.
Un uso sapiente della chitarra acustica e dell'armonica contribuisce a tenere alto il suo profilo di songwriter nel generale insieme elettrico del disco. Sembra un ritorno alle origini, il romanticismo di American In Me e Responsability, canzone sui doveri di un padre, sono una fotografia nitida del suo talento mentre la sua verve rocknrollistica si sfoga in Born Too Late, pura scapigliatura rock alla Willie Nile, in Change In The Weather un laidback blues alla JJ Cale e in Rock While I Can Rock, blues nell'armonica e Buddy Holly nelle chitarre. Rimane da dire di questa bella compilation (in pratica due dischi in un unico Cd) dell'inedito The Only Normal People.
È un brano diverso dagli altri, fa da spartiacque ai due dischi ed è un pezzo molto sincopato costruito con sola chitarra, voce e basso che riporta una ironica osservazione dello stile di vita dell'americano medio.
Rock While I Can Rock: The Geffen Years è un ottima occasione per recuperare Steve Forbert attraverso due album interessanti e per nulla invecchiati.