KEITH GATTIS (Big City Blues)
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  Recensione del  30/04/2004
    

Keith Gattis è un giovane musicista texano che, pur essendo sconosciuto su queste pagine, non è un esordiente. Il suo debutto (e, fino ad oggi, unica opera) risale al lontano 1996, con un CD autointitolato pubblicato nientemeno che dalla RCA, un disco di honkytonk elettrico e roccato, alla Dwight Yoakam, che però ottenne solo critiche favorevoli ma vendite scarse. E così (ma è storia comune per tanti, oggi) l'oblio, anche se Keith non ha mai smesso di esibirsi dal vivo (lo scorso anno addirittura come membro fisso della band di Yoakam) ed un mostro sacro come George Jones ha interpretato una sua canzone: niente più dischi comunque, e si sa che far passare troppi anni dopo il disco d'esordio nel mondo discografico equivale al suicidio.
Ma Keith è un texano, ha la testa dura, e nel 2001 si sposta a Los Angeles, dove in breve diventa uno degli elementi più interessanti della nuova scena country della metropoli californiana; finalmente l'anno seguente ecco il tanto atteso secondo lavoro Big City Blues (sì, ne parliamo solo ora, ma è targato 2002), un disco autoprodotto che si discosta in maniera netta dall'ormai lontano esordio. Si tratta infatti di un lavoro maturo, denso, di pura americana, con ballate cantautorali solo occasionalmente sfiorate dal country, con pochi ma dosati strumenti alle spalle della voce espressiva di Gattis. Un disco convincente quindi, in cui Keith predilige le atmosfere gentili, i toni tenui, i piccoli acquerelli, le ombre piuttosto che le luci. Non è però un album noioso: Keith ha feeling, sa scrivere canzoni di prima qualità, e da qua e là anche qualche zampata più rockeggiante, tanto per far vedere che lui non è solo un balladeer ma un musicista completo.
E, cosa non trascurabile, si circonda di musicisti di nome, che però mettono la loro esperienza a completo servizio del leader: troviamo quindi gente come Doug Pettibone (Lucinda Williams band), Rami Jaffee (Wallflowers), Ken Coomer (Uncle Tupelo, Wilco), oltre al "mitico" chitarrista Waddy Wachtel (Zevon, Dylan, Jackson Browne, Keith Richards, oltre a tutti i californiani che contano). La title track apre l'album con sonorità quasi lowfi, un cantato svogliato, una ritmica strascicata: sembra quasi un brano di Guy Clark, ma con un tocco bluesato in più.
Il ragazzo mostra subito di avere i numeri. Reconsider è una gentile ballata accarezzata dalla steel guitar, con un suggestivo organo (Jaffee) a fungere da tappeto sonoro: tutto molto anni 70, con echi di Gram Parsons. El Cerrito Place è un'altra ballad, più elettrica dalla precedente, solida e ben strutturata, americana al 100%. La tenue e folkeggiante Same to me anticipa la vigorosa Wish I had you, il brano più elettrico finora: ritmica secca, voce più forte e presente, assolo di chitarra (Wachtel) di chiara impronta rock. Down again è invece più che mai immersa dentro la tradizione: melodia di stampo classico, strumentazione parca ma di grande effetto (dobro, chitarre acustiche, banjo, ritmica leggera), per uno dei brani più suggestivi della raccolta. Il migliore, almeno finora.
La cupa Don't Lie ha atmosfere ed umori tipici del Sud, ed un crescendo di grande bellezza; The bottom (unica non scritta da Gattis, è di Waylon Payne, figlio di Jody) è una ballata di transizione, che prelude alla bella California, lenta, elettrica, cantata con voce calda, perfetta da sentire al tramonto dopo una splendida giornata, di sole. Chiudono l'album l'elettrica e trascinante Hard on me, forse il brano più diretto ed immediato del disco, con chiare influenze pettyiane, e Somebody told me, altra piccola gemma, una ballata triste e lentissima, alla Townes Van Zandt, fiera e piena di pathos. Un disco tosto, tutto da sentire: Keith Gattis è uno giusto e, dopo una gavetta più lunga che mai, ha finalmente imboccato la strada giusta. Almeno per noi music fans.