STEVE FORBERT (Just Like There's Nothin' To It)
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  Recensione del  08/08/2004
    

Non essendosi mai fermato, nemmeno quando l'etichetta discografica di turno gli tratteneva i dischi in archivio invece di pubblicarli, Steve Forbert ha cresciuto il suo songwriting come un piccolo orto di qualità, dove si trovano più o meno le solite verdure, ma si sa che sono naturali, gustose e senza additivi chimici o modifiche genetiche. Just Like There's Nothin' To It è una splendida conferma di questa filosofia, che non si allontana nemmeno un po' dagli standard del rock'n'-roll e ha i suoi pregi maggiori in canzoni con un cuore romanticissimo che ormai arrivano soltanto da gente come Steve Forbert e dintorni.
Così dopo qualche testimonianza dal vivo, in veste di one man band, eccolo con una nuova dozzina di canzoni che sembrano frutto di un momento particolarmente ispirato e che vengono custodite da un manipolo di musicisti (da Edie Brickell a Garry Tallent fino a Viktor Krauss) scelti con la bilancia del gusto e della qualità. Questo equilibrio rende Just Like There's Nothin' To It uno di quei dischi sempre più rari, dove regna un'armonia, una serenità, un calore che sembrano riflettere al cento per cento la personalità e il talento di Steve Forbert.
La parte più importante sono quelle ballate, tra Dylan e Springsteen, che dopo trent'anni di carriera ormai si riconoscono come sue, e basta. Con alcune piccole novità e qualche variazione in più: un accenno di elettronica che non guasta in What It Is A Dream (che poi ha anche una pedal steel spaziale nella parte finale) e nella conclusiva About A Dream, un tratto pop (nella miglior accezione del termine) in Autumn This Year (dove l'armonica e l'organo duettano alla grande) e poi un momento da crooner in The World Is Full Of People che è costruita con il pianoforte e la voce di Steve Forbert, che in tutto Just Like There's Nothin' To It di mostra di aver capito, da tempo, che le canzoni hanno anche bisogno di un cantante.
Sul songwriting è difficile avere dubbi: le sue ballate (There's Everybody Else, I Just Work Here, The Pretend Song, I'm In Love) scorrono senza un intoppo per tutti i quarantacinque minuti del disco, condite dalle chitarre (elettriche e acustiche, e anche qui l'equilibrio è prezioso), dall'organo, dalla pedal steel e Steve Forbert le asseconda con una voce senza pretese, però matura quel tanto da sviluppare un'interpretazione convin cente.
Anche quando si tratta della blueseggiante Oh, Yesterday o dei sapori jazzy di I Married A Girl che ricorda anche alcuni esperimenti di un suo album di una decina d'anni fa, The American In Me. Restano un paio di canzoni da ricordare: Wild As The Wind, oltre ad essere un'altra splendida ballata, è anche un omaggio a Rick Danko, e questo fa onore a Steve Forbert. Poi The Change Song, una grandissima canzone dove cita Smokey Robinson rinnovando le passioni, mai nascoste per la verità, per il soul e per il rhythm and blues. Due gioielli per il suo disco più bello dai tempi di Streets of Your Town, e forse qualcosa di più.