Che Ryan Adams sia di spersivo è già stato detto e scritto. Con tre album (
Rock n'Roll più i due capitoli di
Love Is Hell) avrebbe potuto farne uno solo e sarebbe stato un capolavoro e invece il miglior rockwriter americano di ultima generazione si è distribuito in un album un po' paraculo (
Rock N' Roll) e in due segmenti, durano ciascuno più di mezz'ora, di ottima scrittura cantautorale urbana. Come per la precedente parte number one,
Love Is Hell pt.2 è un album dalle tinte invernali saggiamente ambientato in una New York malinconica dove la pioggia e la neve sono padrone delle strade e le luci di Natale aumentano il carico di tristezza e di solitudine. C'è una grande verve descrittiva in questo disco,
l'amore è un inferno e Ryan Adams fa di tutto per non essere consolatorio.
Ma non ci riesce. Con le note e le parole delle sue canzoni sa essere fotografo come il suo omonimo
Ansel Adams, usa il bianco/nero, le sfumature grigie, i contrasti duri ma se l'altro Adams è un poeta della natura e degli spazi aperti il giovane Ryan predilige il paesaggio desolato urbano, gli alberi scheletrici dell'inverno, le scale di sicurezza e i retro umidi degli edifici, le finestre delle camere ammobiliate, la neve sporca di fango.
E' un impressionista delle ombre e non della luce, un fanatico del grigio, un grande autore di ballate intimiste che vorrebbero mettervi addosso depressione e smarrimento e invece grazie alla sua voce, alla sua musica, al suo lirismo arrivano paradossalmente a essere calde, romantiche, confortevoli. Ryan Adams è uno dei pochi che riesce ad affrontare temi tristi, caduchi, intimisti senza essere palloso. Possiede quella rara qualità che ad esempio possiede Springsteen in
Nebraska, far accettare un senso di sconfitta e renderlo commovente, quasi amico nella sua sincerità. Adams, in alcune delle canzoni di
Love Is Hell sembra sul punto di cadere, trafitto dai ricordi e dalla solitudine, da una tristezza senza sbocco e invece risorge, tocca il cuore con la malinconia ma è malinconia più calda di un bacio.
E' romantico anche se vorrebbe essere cinico, sa usare la città di New York, le sue strade, la sua pioggia per portarvi dentro un film e farvi respirare l'aria di quella città dove il Chelsea Hotel non è un sacrario del rock n'roll per turisti ma il luogo dove è nato tutto. Chi ama e ha amato la New York degli anni '60 e poi quella dei rockers urbani degli anni 70 non potrà che felicitarsi di un disco così, anche se troppo breve (in pratica è un Ep) e imperniato tutto sulle ballate senza qualche liberatorio rock n'roll.
Sono ballate che toccano l'apoteosi in
City Rain, City Streets e soprattutto nella conclusiva elettrizzante
Hotel Chelsea Nights, "girata" nel famoso hotel newyorchese e cantata con un intensità degna del miglior Jeff Buckley. Tutto è giocato sui grigi e sui toni crepuscolari, in
My Blue Manhattan c'è un pò di Randy Newman, poi gli asfalti lucidi delle strade riflettono il Bob Dylan di
Blonde On Blonde prima che l'ironia delle
English Girls Approximately (dove canta anche Marianne Faithfull) sposti l'azione a Camden a Londra e con il commovente quadretto sociale di
Thank You Louise si piombi in una gelida Baltimora natalizia.
Ci sono monologhi intristiti accompagnati dal piano e improvvise impennate melodiche, c'è un lirismo quasi trascendentale, ci sono chitarre acustiche ed elettriche, c'è la strumentazione spartana di un agro folkrock pervaso da un umore poetico da vecchio Village.
Greig Leisz, un nome che è una garanzia, con le sue corde traduce il country, gli lascia quel poco di evocativo che una lap steel riesce a fare con uno spazio aperto e lo ambienta nelle strade di New York, lambendo, folk e rock come si faceva dalle parti di McDougal Street. Gli altri col basso, la batteria, ii piano, il violino e il violoncello punteggiano un suono che è puro positively
4th Street sound. Struggente.