MILTON MAPES (Westernaire)
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  Recensione del  30/04/2004
    

Gran parte dell'irresistibile fascino dei Milton Mapes è racchiuso in quel malizioso ammicamento all'epica della frontiera, di un West immaginario però, tutto nella testa e nell'anima del leader Greg Vanderpool. I Milton Mapes sono in sostanza il frutto del suo songwriting e di un sogno che si è realizzato grazie all'apporto decisivo dell'amico Roberto Sanchez (batteria, dobro e wurlitzer). Westernaire, così come l'esordio di The State Line del 2001, ha già fatto breccia nella stampa locale di Austin, luogo ideale in cui la band si è dovuta per forza di cose stabilire, dopo gli esordi nel 1999 sulla scena locale di Dallas. Qui infatti hanno trovato la chiave di volta per mettere a nudo le loro ballate elettriche, impastate nella polvere del deserto texano.
Si parli pure dell'ennesima generazione alternative-country, ma la trasparenza di queste canzoni trascende il genere per avvicinarsi con estrema naturalezza ai classici del rock americano tout court. Tre le pieghe dei testi si insinuano liriche che ai luoghi comuni di una scrittura folk per paesaggi e storie, contrappongono riflessioni amare, indagando l'ignoto e la fuga, temi che contribuiscono certamente ad accrescere l'impatto generale. La musica invece si inserisce in una tradizione dura a morire, ma non lascia in bocca il sapore amaro del solito dejà vù. I Milton Mapes raccolgono il febbricitante fragore elettrico dei Crazy Horse e lo adattano ad un folkrock lineare e melodico che richiama il mainstream dei Counting Crows e dei primi Wallflowers (A Thousand Songs About California), senza tralasciare una punta di sperimentazione indierock alla Wilco.
L'irresistibile inflessione desertrock è tuttavia l'arma in più della band, che su questo tracciato raggiunge risultati eccellenti in Everyone Around, segnata dalla pedal steel di Gary Newcomb. In ogni caso, prese le misure con l'incedere acustico e un po' claustrofobico di Great Unknown, il muro di chitarre (si affiancano a Varderpool anche Jeff Jones, Ty Chandler e Nate Fowler) è pronto ad esplodere in Maybe You're Here, Maybe You're Now. L'armonica ha un sapore familiare e il brano prende il largo sulle note di un arrembante folkrock stradaiolo.
La via è aperta alle scorribande elettriche e ai feedback di Some to Reap, anima scura del disco opposta alla grazia d'esecuzione delle successiva The Only Sounds that Matters. La produzione di Britton Beisenherz gioca tutto su atmosfere dilatate (Palo Duro, la deliziosa Silverbell o il finale epico di The Sad Lines) mettendo sempre in primo piano l'armonia dell'insieme e mai il solismo dei singoli. "Cosmic Americana", come amano definirla loro stessi: senso della tradizione, qualche melodia memorabile, una buona manciata di chitarre, i Milton Mapes sono l'ultima avventura del rootsrock a segnalarsi per animosità e ispirazione.