Tradito dai soliti rimpasti discografici che troppo spesso hanno tagliato le gambe a giovani promesse della canzone d'autore,
Matthew Ryan trova uno spiraglio di luce per uscire dalle sabbie mobili dell'assoluta indipendenza. Il suo percorso artistico è stato segnato da una crescita esponenziale del songwriting, purtroppo non supportata da un altrettanto convincente sostegno mediatico: un pubblico di nicchia lo ha sempre osannato, la critica più attenta ha spesso colto l'enorme fascino delle sue ballate crepuscolari, ma è mancata quella spinta che ha permesso ad altri suoi giovani colleghi di spiccare il volo. Decisamente sottovaiuttato, Matthew Ryan è uno dei talenti più brillanti dell'ultima generazione di rockers americani, perché sotto la cenere delle sue innumerevioli influenze (un ragazzo che ha ascoltato tanto le parole di Dylan e Springsteen quanto le chitarre di Clash e Replacements e gli arrangiamenti degli U2) ha saputo cucirsi addosso un suono originale, che marca in maniera indelebile le sue canzoni.
Certo, Matthew non ha fatto molto per risollevarsi da questa situazione, preferendo l'oscurità e l'asciutta poesia acustica di Concussion, con quelle tormentate ballate notturne che sembravano rappresentare una sorta di terapia d'urto per uscire dal dolore che aveva minato la sua carriera. Non pago di tutto ciò, ha voluto persino pubblicare due raccolte imprecise, abbozzate, ricche di demo e schizzi acustici disponibili attraverso il suo sito internet (
Hopeless To Hopeful e
Dissent From the Living Room). Per tutti questi motivi
Regret Over The Wires si presenta come un ritorno in grande stile all'irruenza elettrica degli esordi, filtrata però attraverso la maturazione e la sensibilità raggiunta in questi anni.
Non è uno scarto improvviso, ci sono tutti gli ingredienti che hanno reso unica la carica emotiva delle sue cupe ballate, ma allo stesso tempo si è inserita una produzione (in team con l'amico
Doug Lancio e
Mark Robertson) più moderna ed elegante, che fa un uso intelligente della tecnologia, infettando la sua scrittuta d'origine classicamente folk con qualche samples ed efficaci interventi delle tastiere. Ma non preoccupatevi: le canzoni di
Regret Over The Wires restano pulsanti, elettriche, vitali, mischiando un cantautorato dalle timbriche urbane con la fragilità di un folksinger di provincia. Il piano malinconico nell'iniziale
Return To Me si lega a qualche battito elettronico, lasciando sul momento spiazzati, ma quando entra la voce del protagonista tutto torna al posto giusto.
Ti assalgono subito quel senso di solitudine sciolto e quelle ambientazioni da ore tarde. Le inconfondibili asprezze elettriche della sua musica prendono il sopravvento:
The Little Things è una porta aperta verso il passato, ruvida ed ispirata;
Comin' Home e
Sweetie due rasoiate rock'n'roll che alzano la temperatura, opposte alle tenerezze di
Trouble Doll e
Long Blv., brani che rivelano il volto romantico e passionale di Ryan, sonorità elettroacustiche con un lavoro elegante di Doug Lancio e
Kevin Teel alle chitarre. In
Nails fanno la loro comparsa persino la pedal steel e il violino di
Bucky Baxter (con Bob Dylan, Ryan Adams e tanti altri) ed è subito un mezzo capolavoro: una ballata straziante che profuma di country e provincia, il punto più alto ed elegiaco del disco.
Sul versante opposto si collocano le ombre minacciose di
Every Good Thing e le fosche tinte newwave di
I Can't Steal You, dal punto di vista sonoro episodio tra i più coraggiosi della raccolta insieme a
I Hope Your God Has Mercy on Mine. Giunti alla fine della corsa l'impressione che suscita
Regret Over The Wires è quella di un lavoro animato dalle diverse anime del suo autore, bilanciato alla perfezione da una produzione che ha saputo ammodernare il suo linguaggio senza stravolgerlo.