SCOTT GIBSON (Make Ready)
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  Recensione del  31/03/2004
    

Scott Gibson non è nuovo su queste pagine. Aveva esordito con un mini album, registrato dal vivo in studio, Live Sessions che aveva ricevuto il plauso della nostra testata ed un aiuto da amanti della vera musica, come Massimo Ferro, responsabile di Radio Voce Spazio. Live Session, July 17th 2000, ci presentava un giovane cantautore che era cresciuto a pane e chitarre in Texas e che aveva suonato come bassista nella band di James McMurtry ed in altri gruppi della zona di Austin. Scott ha lavorato duramente, dopo quel mini album, per realizzare il suo primo sforzo adulto e Make Ready è un signor disco, uno dei migliori prodotti di Americana dell'anno.
Ha ripreso diverse canzoni dal suo mini d'esordio, come Robin On Hudson, qui più corale e chitarristica, o la splendida Kripalu, o Ballad of thè Balladeer, Se quello era un assaggio ora abbiamo tutto, compreso il contorno. E direi che Scott, 23 anni, mostra di avere le carte in regola per diventare una delle stelle dell'alternative country. Scott è cresciuto in mezzo alla musica e la sua canzone preferita rimane Mama's Don't Let Your Babies Grow Up to Be Cowboys (Waylon & Willie). Make Ready è stato registrato con alcuni dei migliori turnisti di Austin: Chris Cage, Robbie Gjersoe, David Abeyta (dei Reckless Kelly), Paul Le Mond, Rafael Gayol (The Flatlanders, Joe Ely Band).
Non male per un esordiente. Gibson ripaga la fiducia con una manciata di grandi canzoni. Dalla guizzante I Believe che coniuga rock e radici alla perfezione, con le chitarre aperte ed una voce limpida a dettare la melodia alla title track, veloce e guizzante, tra rock e una sventagliata di blues, Texas style. Put Away the Blues è una ballata di spessore, con la voce del leader sfiorata da chitarre e fisarmonica, una melodia di quelle che si ricordano a lungo ed un suono presso che perfetto. Il ragazzo ha talento, sa scrivere, canta bene ed usa arrangiamenti degni del migliore Lloyd Maines. L'album ha dalla sua anche un suono superbo, e questo certo non guasta.
Si prosegue con la già nota ma trascinante Robin On Hudson che si è mutata in una guitar ballad elettrica degna del Boss, ma sempre molto roots oriented, con la lenta Hand it Over, che ha profonde influenze nella tradizione, con la tersa Ballad of the Balladeer, anche questa arrangiata in modo brillante. Se Kripalu rimane un capolavoro, una delle canzoni più belle degli ultimi anni, non si può non notare il country grass, ma di pura marca texana, Sunday Social, dove spuntano Guy Clark e Robert Earl Keen, il rock'n country I Can't Tarry Long e la malinconica The Hardest Part of Hurtin', a cui de particolare fascino il lavoro della steel guitar. Ma è con la stupenda Kripalu, una canzone inno, una di quelle che non si dimenticano, che mi piace chiudere il disco. Scott Gibson è un talento vero, non lasciamolo nell'ombra.