JOE HENRY (Tiny Voices)
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  Recensione del  31/03/2004
    

Il nono album di Joe Henry arriva ad illuminare un'intera carriera ed oltre ad essere un grandissimo disco ci rassicura su un nome destinato a diventare davvero importante. Perché Joe Henry è riuscito ad emergere, ad uscire dalla durissima e limitata guerra nelle paludi del songwriter solitario e ha scoperto un modo, una natura di essere musicista a tutto tondo. Gran parte delle intuizioni a cui dobbiamo questa svolta sono maturate tra Trampoline e Fuse, due dischi bistrattati (con più di una ragione), che però, a posteriori, segnano le linee di confine tra il Joe Henry del passato e quello di Tiny Voices.
Trampoline ripeteva gli schemi già sperimentati (splendidamente) in Murder Of Crows e poi in Shorts Man Room (con l'appendice di Kindness Of The World) ed era impossibilitato ad andare oltre. Fuse, per quanto bizzarro e irrisolto con i suoi rumori e i suoi loop, ha consentito a Joe Henry di sperimentare e provare nuove soluzioni per le sue canzoni e per la sua voce. Sulle prime non abbiamo mai avuto dubbi fin da Talk Of Heaven (era il 1986, quasi vent'anni fa); della seconda, ha sorpreso l'evoluzione e la capacità di trasformarla a sua volta in uno strumento. Conta anche l'inedita abilità da produttore (valga, su tutto, Don't Give Up On Me di Solomon Burke) e il coraggio di confrontarsi con musicisti di un livello superiore, a partire da Ornette Coleman in Scar.
Succedeva anche in Shuffletown (un disco assolutamente da riscoprire), ma tra Scar e Tiny Voices, Joe Henry ha maturato un'abilità di regista: come davanti ad un film, tutti sono protagonisti, compreso chi ascolta perché rimane avvinto da quello che sente.
Le canzoni sembrano scolpite dentro lunghe sequenze musicali. C'è molta improvvisazione, s'intuisce, perché i jazzisti (e qui c'è pieno) suonano così, però c'è un ordine nel caos, c'è un'organicità nelle melodie. Ognuno va per conto proprio, liberissimo e contento, però tutti secondo una trama avvincente, un copione che tiene sempre altissima l'attenzione e la tensione.
Ci sono le canzoni, soprattutto. Una delle più belle, Flesh & Blood, l'avevamo già sentita nel solenne e fortunatissimo Don't Give Up On Me di Solomon Burke. Non potendo competere con tanta voce, Joe Henry ha ribaltato le tessere del puzzle, inserendo un drumming che diventerà materia di studio per le scuole di percussioni, scarnificandola ulteriormente e offrendo una sua, personale grande interpretazione. La metafora cinematografica non è casuale: l'unica direzione che Joe Henry ha dato ai suoi musicisti è stata quella di guardarsi il film di Luis Bunuel, The Criminal Life of Archibald de la Cruz.
Chris Bruce alla chitarra, Jennifer Condos al basso, Jay Bellerose alla batteria e David Palmer e Patrick Warren alle tastiere, nonché Don Byron e uno dei suoi collaboratori più vicini, Ron Miles, rispettivamente al clarinetto e alla tromba sembrano aver colto al volo l'indicazione (non facile, bisogna pur dirlo) e hanno trasformato le sue canzoni in uno scorrere continuo di suggestioni ed immagini. Raccontarle nel dettaglio sarebbe riduttivo nei confronti di Joe Henry e di Tiny Voices: vi basterà arrivare alla coda di This Afternoon con quel pianoforte dai tortissimi sapori free, per lasciarvi andare a questi patchwork di immagini e storie, con quattro accordi di chitarra che hanno più anima del novanta per cento dei dischi pubblicati quest'anno e un tessuto uniforme e nello stesso tempo variegatissimo, che non si consuma con due o tre ascolti.
È destinato a rimanere. Perché Tiny Voices è un disco inusuale, complesso e mutevole. Può essere struggente e graffiante, cinico e romantico, plumbeo e luminosissimo, denso e impegnativo. Uno dei più belli e importanti di questo anno tutto sommato avaro di emozioni. Evitiamo qualche incombenza, prendiamoci un giorno di permesso o di vacanza (sì, ce ne meritiamo ancora uno), spegniamo la televisione, inventiamoci una scusa e godiamoci la bellezza di Tiny Voices. Quattro stelle e una luce, quella di Joe Henry, che brilla sempre più intensamente.