Crescono i
Dirty Honey e al secondo album,
Can’t Find The Brakes, titolo esplicativo, si corre.
I vocalizzi di Marc LaBelle si caricano da
Don't Put Out The Fire, trascina la rock band in una perpetua corsa, in cui le figure delle chitarre sono affilate, protese in avanti, e diventa un’esperienza sensoriale che vive nel tempo unico e “chiuso” di
Won't Take Me Alive e soprattutto di
Dirty Mind.
Ballate che si fanno apprezzare per la disamina del sentimento amoroso che sanno svolgere sia in modo razionale, sia con impennate di grande coinvolgimento emotivo (
Coming Home (Ballad of the Shire) a
You Make It All Right).
I Dirty Honey penetrano efficacemente, come l’occhio attento di una camera, i tanti segreti del tempo del rock (deliziosa
Get A Little High e i 7 minuti finali di
Rebel Son).
Senza incertezze, smagliature di poco conto, i Dirty Honey sembrano volerci chiedere di non rallentare, aspettare e guardare il mondo con attenzione, tanto non si corre il rischio di perdersi qualcosa.