JACKIE GREENE (Gone Wanderin’)
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  Recensione del  31/03/2004
    

C'era un tempo, nem meno poi così lontano, in cui era abbastanza lecito provare un certo stupore per la straripante prolificità con cui la scena musicale nordamericana riusciva a sfornare ogni giorno nuovi cantautori, e spesso per altro contrassegnati da un più che discreto talento. Ora non è più così, dall'altra parte dell'oceano ci sono esordienti di qualità che spuntano improvvisamente da ogni angolo, merito forse anche della tecnologia, delle sempre più ricche possibilità di accedere alle registrazioni e più probabilmente di una cultura musicale assai più consistente che altrove.
Quel che invece può riuscire ancora a sorprendere in qualche misura è la capacità che alcuni di questi nuovi volti mostrano nel saper mescolare spesso in percentuali difficili da quantificare, ma tali comunque da dotare ciascuno di essi di tratti sufficientemente distinguibili country, rock, bluegrass, folk, blues e chissà che altro ancora. Nel caso di Jackie Greene sono soprattutto gli ultimi due elementi che formano le fondamenta su cui si basa il suo modo di fare musica in questo sorprendente debutto discografico che, come spesso avviene, farà presto sorgere molti paragoni e tentativi di accostamento a questo o quell'artista, primi fra tutti naturalmente i soliti Woody Guthrie e Bob Dylan.
Per non smentire la sua appartenenza a tale retaggio, lo stesso Jackie del resto non esita a far sapere, partendo dal titolo stesso del suo lavoro, che non disdegna affatto vestire i panni del menestrello vagabondo. Personalmente però questo esordio mi fa venire in mente quello che ha visto protagonista, parecchio tempo fa, un certo Steve Forbert, non sempre in termi m strettamente musicali ma semmai per convinzione, irruenza edi autorevolezza: rispetto al cantautore di Meridian però Greene, oltre al folk urbano, sembra molto più attratto dal blues che dal rock'n'roll, ed inoltre la sua capacità melodica a questo punto della carriera appare senz'altro leggermente inferiore anche se, considerata la tenera età, ci sono ovviamente molti margini di miglioramento nel suo songwriting.
Jackie infatti ha superato da poco i vent'anni ma già possiede una voce matura e convincente nonché un bagaglio strumentale di tutto rispetto che comprende chitarra acustica ed elettrica, armonica a bocca, pianoforte ed organo; questi ultimi in pratica sono impiegati in maniera più occasionale ma l'uso del pianoforte risulta particolarmente d'effetto in un paio di brani assai azzeccati come Cry yourself dry e Freeport Boulevard in cui la presenza della musica nera si fa più consistente. Ancora più sporadiche, benché significative, le apparizioni di banjo, violino e sax poiché tutto è concentrato nelle mani sapienti del titolare e dei suoi fidi aiutanti, il bassista Hence Phillips ed il batterista Ben Lefever, in qualche episodio inoltre Greene si esprime incompleta solitudine avviene per esempio nella delicata Gracie e nell'iniziale Travelin' Song, forse l'episodio più dylaniano del CD ma il sostegno di una sezione ritmica così essenziale e solida risulta inevitabilmente determinante per dare efficacia e carattere al suo personale modo di intendere il folkrock.
La traccia che conclude la raccolta, Messin with the kid, infine è stata registrata dal vivo con l'accompagnamento di una band che, come il cantautore, ha sede in quel di Sacramento, Mick Martin & The blues rockers: è per inciso l'unico cover dell'album e offre una dimostrazione della bravura di Greene anche nel campo del blues elettrico. Ci sarebbero ovviamente altre canzoni da segnalare in questa opera prima che appare tutt'altro che presuntuosa ma anche complessivamente priva di sbavature, soprattutto una poderosa ballata come The ballad of sleepy John; la cosa migliore da fare però è annotare il nome del suo autore e magari andare a cercare di procurarsi il CD, ne vale davvero la pena.