Micro e macro problemi si intrecciano, come è nella vita di ciascuno di noi. Piccole e grandi apocalissi quotidiane temperate dalla gran voce di Ross Osteen, smista cariche massicce di rock e proprio lì, in quegli istanti, qualcosa prende forma.
Caricando un interessante discografia,
Ross Osteen Band sono sempre in grado di proporsi in piena autonomia nel segno della contaminazione pura del rock,
Cumberground è uno di quei dischi che si incendiano a prescindere (
Tumble,
Finally Dead e
No Better Place) e si acquietano ma bruciano ancora (
Last Stand e
One Horse), ed è come auspicare vortici d’acqua da cui lasciarsi inghiottire per il piacere di un refrigerio temporaneo.
Si percepisce un senso di angosciosa spinta, carica
Tennessee ma sono tutte parti di una dimensione alternativa, una proiezione catapultata nello spazio del subconscio di Cumberground ad ascoltare l’ipnotica
The One Thing.
Ross Osteen Band sceglie di sottrarre il classico mattoncino che fa crollare l’edificio votato alla confezione di un disco senza spessore, di quelli buoni per le moltitudini.
Battle descrive egregiamente una tensione chitarristica che può conoscere talora, come per incanto, momenti di quiete provvisoria, sembra invocare il bianco e nero sia elitario, nostalgico del passato del rock, ma la sua energia è utile a destabilizzare il precario e fasullo equilibrio costruito dal quotidiano.
Scuotersi,
Wanting è lì a suggellarne il momento perché siamo in un mondo in cui esistono fatti e non solo narrazioni.