Bretagna vista USA, i
Komodor cavalcano una sorta di “ortodossia visionaria” del classic rock, cioè una instancabile, spesso rozza, ma spregiudicata verifica metropolitana, tanto carica di energia, quanto ferreo è lo stile chitarristico entro cui si compie.
Da
Give Up a
Believe It una malevola voce s'insinua insidiosa tra le maglie del brano, con l’armonica a distillare succhi mefistofelici che fanno rabbrividire di gioia, come quei bei vinili degli anni settanta che
Set Me Free,
Just an Escape sono pronte a cristallizzare tutto l'intorno di
Nasty Habits in un eterno presente nel magico solo alla chitarra di
Mamacita, mostrando solo il pulsare rosso fuoco del desiderio di rock (
Heavy Maria a
Debt City).
Nasty Habits, title track compresa, è una sorta di peccato 0riginale celebrato eternamente per evitare che il classic rock si mummifichi nei riti di convenienza di quanti hanno rinunciato alla propria giovinezza barattando i propri sentimenti in cambio di una presunta maturità cui tutti debbono, così vuole il credo sociale, sottomettersi.
Non è il caso dei Komodor, il rock è alterità pura e semplice, come espresso nell’ottimo finale di
Washing Machine Man e
Moondrag con quel “tempo” chitarristico quasi sempre sfuggente, dal battito irregolare, pronto ad impennarsi in “strette” improvvise.
Nasty Habits invischia brano dopo brano, c'è poco da dire e molto da ascoltare.