LUCINDA WILLIAMS (World without Tears)
Discografia border=Pelle

             

  Recensione del  31/03/2004
    

Come annunciato nel "pezzo" di Dale Andrews sul numero scorso del Busca il nuovo disco di Lucinda Williams, World Without Tears, presenta dei cambiamenti rispetto ai precedenti album Car Wheels On A Gravel Road ed Essence, pur non snaturando lo stile e le radici della cantante. Senza dubbio questo è un periodo felice (musicalmente parlando) per la cantautrice della Louisiana (oggi residente a Burbank in California) considerata la frequenza con cui ultimamente sforna dischi, uno più bello dell'altro e la grande stima che si è conquistata dentro la comunità artistica americana. Car Wheels On A Gravel Road, prodotto da Roy Bittan con la partecipazione di Steve Earle, Buddy Miller ed Emmylou Harris era uno splendido album di immagini e storie sulla strada, il lavoro che tuttora preferisco per come ballate, lost highways e un sincero e ruspante roots rock si intrecciavano sullo sfondo di un'America provinciale, dimessa e romantica, nonostante tutto.
Essence dondolava sulle stesse strade portandosi addosso la desolazione, la tristezza e un senso di sconfitta ma era un formidabile raccoglitore di umori e dolenti ballate sudiste. World Without Tears non stacca con quei due album ma ne è un ampliamento, con suoni che rincorrono una grinta ed una energia che paiono una reazione alla struggente malinconia di Essence. Lucinda Williams si conferma una songwriter di grande talento narrativo ma in World Without Words quelle ballate fatal iste che sanno di caldo, umidità e polvere, in cui la sua voce si trascina disperata come una vagabonda senza meta tra le campagne e le cittadine del sud, portandosi un carico di ricordi tristi, di sogni infranti, di affetti andati a male e di solitudine, trovano un corrispettivo in un urlo rabbioso che suona come una reazione al lento cadere giù, a quella discesa quasi compiaciuta nella malinconia e nella tristezza che segnava il tema del disco precedente.
World Without Tears, titolo che esemplifica bene questo sentimento di reazione e rinascita, è un album più vario dei precedenti, è un disco suonato in presa diretta senza tante sovraincisioni con una spartana rock n'roll band di chitarra/basso/batteria, registrato in una vecchia villa di Silver Lake (L.A) con le frequenze elettriche degli strumenti e dell'amplificazione che trovano rifrangenze in un ambiente fatto di legni e antichi mattoni e ripristinano il caldo, domestico vintage sound dei dischi di una volta. Il produttore dell'operazione è Mark Howard, l'ingegnere di Oh Mercy e Time Out Of Mind di Dylan e Teatro di Willie Nelson, e la band è composta dal chitarrista Doug Pettybone, dal batterista Jim Christie e dal bassista Taras Prodaniuk. Senza nulla togliere ai protagonisti, un ensemble di basso profilo dove il produttore ha come scopo il mantenimento di un suono il più vicino possibile a quello di una registrazione live e la band fa della sottrazione la propria virtù anche quando gracchia un rumore che sanguina i riff sporchi degli Stones.
Non ci sono chitarristi "di grido" come Charlie Sexton e Bo Ramsey, l'artefice del suono strascicato e laidback di Essence e la stessa Williams ha dichiarato di aver perso pochissimo tempo nel provare le canzoni, di averle scritte quasi di getto sotto l'impulso di una istintività e una spontaneità mai manifestate prima. Il risultato è un disco con diverse facce, a volte malinconico altre volte rabbioso e duro, a volte dolce e sognante altre volte asprigno e cinico, comunque basato su un rea! sound dal feeling live, che non rinuncia ai momenti riflessivi, alle ballate lente e quasi ipnotiche ma che, mai come in questo caso, mostra modi spicci e unghiate feline. Ancora un lavoro all'insegna del roots rock ma con un atteggiamento più caustico e punk (un esempio potrebbe essere la Shocked di Short Sharp Shocked).
Ci sono quindi gli accenti e gli umori sudisti di Essence e questi sono confinati alle ballate dalla sobria veste strumentale, pochi accenni elettrici, la voce trascinata, un'armonica, la chitarra acustica e una striminzita sezione ritmica da rock anni '50. Sono la specialità della Williams e vanno dalla lenta Fruits of My Labour, la canzone che doveva dare il titolo all'album, alla magnifica Ventura, contrassegnata da una dolce lapsteel in stile country, che con Minneapolis fa parte di quelle cartoline che la Williams spedisce dal suo sofferente on the road nell'America profonda e di provincia.
È superba, romantica, evocativa, quasi luminosa mentre Minneapolis, più depressa e grigia, attanaglia con quella voce pregna di tristezza senza speranza. Over Time è un vibrato di chitarra attorno a un magro folkrock di sola voce e rullante, la svogliata World Without Tears è un altro "taglio" di Essence mentre la lentissima Words Fell ricorda il minimalismo dei paesaggi sonori alla Cowboys Junkies.
L'arpeggio delicato di People Talkin evoca l'aria serena dell'ovest e Those Three Days, segnata da una suggestiva e atmosferica lap steel, stringe di nuovo la mano al mood di Essence mentre Sweet Side incalza e cresce su un talkin' che sembra costruito sulle cadenze di un rap. È comunque rock, un po' bluesy e un po' folkie che si apre nel finale ai rumori elettrici di una band da strada. Innovativa e coraggiosa come d'altra parte American Dream, cantilenante nenia pizzicata da un piano elettrico e una chitarra, che un armonica sposta in un paesaggio di vaga atmosfera darkwestern alla Stan Ridgway.
Fa parte delle novità del disco. Come Rightously, una ballad ai confini del rock sporcata da un feedback di chitarra, come Bleeding Fingers il cui titolo, ottenuto fondendo Let It Bleed e Sticky Fingers, la dice tutta sull'inconfondibile riff stoniano su cui è costruita e sull'atteggiamento punk con cui è suonata. Come Atonement, il brano più radicale dell'album che con il suo rumore di ferraglia e il suo ritmo industriale ricorda il Tom Waits di Heartattack and Vine. World Without Tears è un album che guarda avanti, lo fa con coraggio e modestia, riducendo al minimo gli aiuti della tecnologia, privandosi di qualsiasi strillo da copertina e proseguendo la strada intrapresa con Car Wheels On A Gravel Road. È il caso di affiancare il nome di Lucinda Williams a quelli di Dylan, Springsteen, Steve Earle, John Mellencamp, Neil Young, Tom Petty, John Prine, Joe Ely, Lyle Lovett, Tom Waits. Anche se, in quanto a malinconia, non può che venire in mente il solitario Townes Van Zandt.