Il ‘One man band’ Scott H. Biram (suona chitarre, tastiere e percussioni) con Fever Dreams porta a quota 12 il conto degli album.
La ricetta di blues/rock e ballate roots è ancora vincente, non tradisce uno spirito errante, da pioniere in terra d’America che macina strada e asfalto senza meta, tra alcol, motel fatiscenti, storie di Truckers, con l'essenza spirituale di un peccatore che litiga con amori perduti.
Il ‘quadretto poco natalizio’, dato il periodo, cozza contro una sorta di sogno in musica,
Fever Dreams (l’affascinante ballata d’apertura) va direttamente dritta ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna nella schietta e ruvida
Hobo Jungle.
Nelle ballate roots, come la splendida
Can't Stay Long, non c’è bisogno di una chiave speciale per farsela piacere (una parola, un suono della chitarra, una luce, una visione di dove sta andando a parare su una delle tante highways solcate) per svelarsi nel suo significato eternamente sfuggente tra religione, alcool e redenzione della deliziosa e nervosa
Drunk Like Me.
Un ricordo al Dio, dato il periodo,
Townes Van Zandt con
Highway Kind, qualche eccesso perdonabile nel finale (da
Whatcha Gonna Do a sfuriate country, meglio una
Hallelu ad esempio) ma comunque Fever Dreams mostra che
Scott H. Biram ha ancora “sete”.
Di qualcosa cui tende speranzoso, e bisogna seguirlo, ancora una volta.