Troy Redfern e il Lockdown, la metafora dell’isolamento lo spinge ad un altro disco (
This Raging Heart, nei primi del 20, 20).
Torna il rock, muscolare, allora? No,
Island è diverso.
La spinta che sale vorticosa in
Doin' Time sembra riversarsi lungo le ‘dirty roads’ americane, lì le chitarre sanno trovare il modo di sorprendere nell’approccio acustico, ed energico, si eleva da
Falling Down e da una splendida
Hallowed Ground, il Covid-19 è come l’amarissimo Raining Stones del Ken Loach di molti, molti anni addietro, perché davvero piovono sempre pietre sui poveracci.
Tra tinte blues, mai dome quando si tratta di ripescare la bellezza di
John the Revelator, il vortice melodico ‘roots’ impreziosisce anche
Lay My Body Down, e con le nostalgiche strumentali il quadro è ben delineato (su tutte, sicuramente c’è
Emma).
Island è una parentesi a se nel mondo di Troy Redfern, qualcosa di differente che ha il pregio di farci pensare a cosa eravamo (siamo ancora?) al tempo del Covid, dove si conversa come si fosse dei detenuti, ai due lati di un tavolo, sperando che poi scompaia senza che ci tocchi rischiare per sapere dove sia finito.