Scritto all’età di 20 anni, prima di trasferirsi a Nashville,
No Place Left to Leave è il vero esordio di
Brent Cobb, annata 2006 ripubblicato con la sua etichetta, Ol’ Buddy Records (nei prossimi mesi sarà riproposto live, sia in acustico che con la band) è un disco di Tale e tanta ricchezza di tessere melodiche che val la pena recuperare: l’armonica apre il passo roots&rock di
Richland, si inizia a comporre un mosaico di proporzioni cromatiche e narrative, tali da farne un vero e proprio gioiellino che acconsente di essere abbracciato globalmente al primo ascolto, e credetemi, la soddisfazione è garantita.
Il passo della ballata
No Place Left to Leave ha geometrie nel country affascinanti, quadri bucolici attraversati da linee di malinconia che si perdono ai confini dello sguardo sulla Strada, ed esisteva già tutta, certo, ma Brent Cobb è pronto a superarla, per rinnovarsi spostando le coordinate appunto della ricerca che si fa(rà) con i dischi successivi,
Shine On Rainy Day nel 2016 e il successivo
Providence Canyon.
Intanto il rock cresce da
Butterfly alla raggiante
Black Bottle e quella
Bar, Guitar, and a Honky Tonk Crowd re-incisa dalla texas band dei
Whiskey Myers nel 2011 nell’album Firewater, e seppur le tonalità risultano sfumate in
Don’t Want to Leave, i contorni del songwriting di Brent Cobb sono chiari lo stesso.
Restano i concetti di No Place Left to Leave.
Il concetto d'un tempo pronto a ritornare con l’appoggio di
Shooter Jennings che in quel periodo arrivava dal folgorante esordio di Put the O Back in the Country, lo accompagna nella ballata di
Dirt Road in Georgia, splendida come
Black Creek o la conclusiva
Hold Me Closely (ripresa dagli Oak Ridge Boys nel 2009), storie finite nel fumo nero di un grande falò che brucia scorie di vita.
Hanno delimitato lo spazio di No Place Left to Leave, ma dentro esse sfuggono alle limitazioni territoriali e 14 anni dopo, sfumano le differenze temporali.