PETER BRUNTNELL (Ends of the Earth)
Discografia border=Pelle

  

  Recensione del  31/03/2004
    

Questo disco è stata una piacevole sorpresa. "Ends of the Earth" è un signor disco di pura Americana, ad opera di un musicista che di americano non ha nulla. Peter Bruntnell è infatti nato nel 1964 in Nuova Zelanda da immigrati gallesi: a soli due anni di vita la famiglia Bruntnell fa ritorno nel Regno Unito (questa volta in Inghilterra), per restarci fino ad oggi (con una breve parentesi di Peter in Canada). Fin da ragazzo però, Bruntnell si appassiona di musica a stelle e strisce, ascoltando soprattutto dischi dei Byrds e di Neil Young, e all'inizio degli anni novanta forma la sua prima band, i Milkwood, che ha però breve durata.
Peter ha però la fortuna di venire notato da Pete Smith, all'epoca produttore di Sting, che accetta di fargli da manager e produttore: esce così, nel 1995, "Cannibal", sotto il nome Peter Bruntnell Combination, ma è con il secondo lavoro "Camelot in Smithereens", uscito due anni dopo, che Peter comincia a farsi notare da qualche rivista indipendente e da qualche discografico senza fette di salame sugli occhi. Dopo che il terzo album "Normal for Bridgewater" gli ha fruttato ottime recensioni anche su Mojo e New Musical Express, Bruntnell è stato messo sotto contratto nientemeno che dalla Virgin, tramite l'affiliata Back Porch. "Ends of the Earth" è sicuramente il disco più maturo da parte di Peter, dodici brani di scintillante American Music, ottimamente suonati e cantati, con i Byrds come influenza principale, non soltanto sul versante McGuinn, ma anche con riminescenze di Gene Clark e del mai troppo compianto Gram Parsons.
Ad accompagnare Bruntnell troviamo la sua stabile road band, composta da James Walbourne alla chitarra, Peter Noone al basso, Mick Clews alla batteria ed Eric Heywood alle chitarre e steel: una band dal suono tosto, compatto e pieno. Basta ascoltare l'iniziale "Here come the swells" per rendersene conto: grande brano country rock, dalla melodia che prende all'istante, un bel tappeto di chitarre ed una voce perfettamente "roots". Sembra un brano di una qualunque band proveniente daU'Oklahoma o dal Tennessee (ma anche dalla California). "One drink away" è più intima e acustica, anche se il tempo è comunque vivace, ma non è emotivamente inferiore alla precedente. In "City star" vedo l'influenza dei Byrds più maturi, quelli di dischi come "Untitled" o "Farther along", in cui McGuinn era padrone assoluto nel bene e nel male: qui comunque la bilancia pende dal lato positivo.
La limpida "Tabloid reporter" è più rockeggiante, ma la melodia e i cori sono figli di Gene Clark (un grande autore troppo presto dimenticato); la lenta "Downtown", interiore e cantautorale, dimostra che Bruntnell è in grado anche di scrivere brani di spessore come questo con la stessa disinvoltura con cui inventa una facile melodia country. "Intermission" è, appunto, un breve intermezzo per chitarra e mandolino, che confluisce nella splendida "Rio Tinto", perfetto esempio di Americana, limpida come l'acqua del mare dei tropici, che rimanda a quando, una decina di anni fa, il movimento roots era agli inizi e noi provavamo un immenso piacere a scoprire nuove bands che allora si chiamavano Jayhawks, Uncle Tupelo o Whiskeytown. "Laredo Kent" è una breve oasi per voce, chitarra e piano elettrico, la lunga "Ends of the Earth" ha l'andatura strascicata tipica di certi brani del Neil Young più rurale (quello di "Harvest"), ma lo script ha il sigillo della personalità di Peter.
Il disco si chiude senza cadute di tono, con altri tre brani di livello egregio: la tenue "Black aces", "Murder in the afternoon", slow song bucolica con tanto di rumori in sottofondo di temporale campestre, "Lonesome Charlie" altra gentile ballata, questa volta con il fantasma di Parsons dietro il pentagramma. Good news from UK: Peter Bruntnell è uno giusto e "Ends of the Earth" è il suo miglior biglietto da visita.