JAGAT
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  Recensione del  06/02/2020


    

Jagat, ovvero ‘universo fisico’, la band lo spiega: “..deriva dal sanscrito, una delle prime lingue del mondo.. movimento che spinge l'universo ad una trasformazione che coinvolge ogni cosa.. fisiche a quelle spirituali. The Jagat e la musica.
Un introduzione che ci fa capire che Non ci sono “carinerie” in The Jagat, ma esplosioni di impulsi vitali, nervosi e chitarristici, verso una instabilità che porta dentro Ma Tu, inizia con uno stato di contaminazione espansa tra il rock di stampo classico e il blues e non possono rimanere imprigionate in un unico luogo, ma hanno necessità di disperdersi in corpi infiniti, se seguiamo il discorso del cantante/songwriter James Cubbins (è di Settimo Torinese e ci tiene a far sapere che canta rigorosamente in italiano).
Un quartetto che ha alle spalle esperienza live e qualche disco, ma non insieme, The Jagat parla di cose all’apparenza semplici, ma piace sbirciare quello che sta ai lati, ai margini della realtà, nascosto negli interstizi delle immagini quotidiane (nel passo deciso e accattivante di Ora Lo Sai e Non Sono Dei, cupo e aperto alle intriganti contaminazioni bluesy dell’armonica in Cinque Giorni e in Guai).
Classiche aperture rock in Sto Andando a Sud, molto apprezzate nella pregevole Tempo, ci dicono che i Jagat sanno costruire melodie capaci di aprire le porte sulla complessità di ciò che viene osservato in primo approccio, con inevitabile coinvolgimento, e non sono affatto custodi di una fissità plumbea senza vie d'uscita (le ballate Fa' bei Sogni e La Vita Mia, sale la dolcezza, la descrive bene l’armonica, e piano piano diventa un flusso indispensabile al solo chitarristico che sa sempre come affiancarla).
Resta Freedom, si snoda agile ed è qualcosa che i Jagat riescono a fare nell’intero album, il rock/blues lo pedinano, non lo abbandonano, sanno come rintracciarlo e incrociarlo mentre tessono musica sulle ruvidezze crescenti di una quotidianità, quella dei The Jagat, non certo dei bassi orizzonti.