Sguazzano nell’alt.Country dove il rock e le chitarre hanno la giusta luce, Taylor Kingman capeggia la band di Portland in un debutto brillante e interessante che si muove lungo una linea temperata dalla sacralità e dai misteri del mondo country western.
Personaggi pieni di significato, cuori solitari come dovrebbero essere i cowboys, l’oscura profondità del West solcata dall’elettrico, squilli improvvisi delle chitarre che mediano a un percorso folkeggiante che segna
Arguably OK nell’avvio di
Alone e
Dejavudu.
Si prospetta uno di quei viaggi di per se paradossali, Arguably OK è irriverente e dolce, rasposo e poetico, nello spazio tutto personale che si allarga fra
Desert Rose,
Good Stuff e
Emmanuel emerge allora una nuova opportunità per il country, e il testo si fa sempre più inscindibile dalle melodie.
In
Hard Times si slitta impercettibilmente da una dimensione all'altra in una continuità temporale tra country e rock, viene così a crearsi un tempo in cui ci si muove secondo uno scivolamento che è verticale, più che orizzontale.
È causato dai fendenti alla chitarra su cui si adagiano i momenti della vita quotidiana, quanto le variazioni emotive dei rapporti tra i vari personaggi di
Lord, Why'd Ya Make Me?,
The Devil's Point e
Tunnel Of A Dream dove si aggiunge l’armonica, ha i giusti tempi e lo spazio sono proprio quelli in cui si muovono
TK & The Holy Know-Nothings.
E arrivano solo certezze da Arguably OK.