Classic rock dai colori diversi, si aggirano in
Changing Colours rimbalzando in un sound anni ’60/’70 da un brano all’altro indisturbati, ma non restando identici a se stessi ma mutando posizione e ‘gender’ all’interno dello scacchiere disegnato dai
The Sheepdogs.
La forza di un sesto disco che mostra subito chitarre tirate a lucido descritte mediante racconti che girano intorno a poche verità, semplici tanto quanto i personaggi che le attraversano, nel bene o nel male, Changing Colours tocca corde profonde e ingolosiscono da
Nobody e trova preziose alleate nelle smaliziate
I've Got a Hole Where My Heart Should Be e
Saturday Night, tutte insieme seguono uno stimolo che le riconduce verso una tipologia di rock classica, ma che al contempo i The Sheepdogs sono pronti a ribaltarla ricercando nuove melodie in grado di compiere ciò che oggi è sempre meno possibile.
Steel guitar, tastiere e una calda sezione fiati (ad esempio con
I Ain't Cool) per piccole zone franche pronte a trasformare l’immagine del rock in uno spazio mirabile, accattivante, basta non affannarsi a decifrarle troppo, naturalmente quando tornano a ringhiare con
You Got to Be a Man e
Kiss the Brass Ring le chitarre (una new entry, Jimmy Bowskill) hanno la fiamma e la freschezza dell’adolescenza che si apre al desiderio, trovando accenti di lirica nella ballata di
Cool Down con un bel duetto tastiere-chitarre e in
I'm Just Waiting for My Time.
Changing Colours è un’esplosione orgiastica di suoni e colori (
Up in Canada e
Run Baby Run) una continua offensiva al rock che impedisce di distogliere l’attenzione per tutta la sua durata (17 brani e con diverse strumentali) tanto che vien da chiedersi del perché non vengano studiati a scuola i The Sheepdogs.