Se cercate un appiglio dal quale scorgere del buon classic rock, rivolgete l'orecchio verso la norvegia degli
Howlin’ Sun: lo cominciano a seguire, a osservarlo da lontano in
Hitchhiker Of Love, a stalkerarlo, si direbbe oggi, e sotto sotto a conquistarlo con
Westbound.
Sforano i 4 minuti poche volte, un disco breve ma con una freschezza invidiabile anche nella voce di Tor Erik e dalla chitarra di Magnus Gullachsen che in modi diversi potenziano la volontà di Howlin’ Sun di misurarsi con il linguaggio del classic rock anni ‘60/’70.
Prende forma, si allarga e diventa imponente, nel fascino di
Move e tra i cambi di ritmo di
Strange Night, ci sono poche geometrie, il suono è frastagliato e dalle forme selvagge come tra le montagne e gli alberi della Scandinavia.
Gli Howlin’ Sun sanno giostrarsi tra passato e presente con sobbalzi e sorprese, in
Jupiter e
Yellow Lit Road contemplano un ‘tempo’ del rock simile a quello di un tempo immaginario, non lineare, di veglia sonno e sogno, evocativo e prossimo nel solo alla chitarra finale, poi assestano altri ‘uppercut’ in pieno stomaco, di quelli che ti smuovono, nel cuore di
Day-To-Day Blues e in
Nothing Like A Shelter, piazzando efficacemente l’armonica in
The Day Took My Sunshine Away così turbolenta e densa da rischiare di andare fuori giri.
Ma non è così, si resta solo abbagliati, e la ballata acustica finale di
A Little Bit Of Rain è lì a mantenere accese le luci a Howlin’ Sun per spegnerle alla fine.
Ma Howlin’ Sun è come il bianco impresso su uno sfondo nero.