INDIGENOUS (Gray Skies)
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  Recensione del  25/11/2017


    

Mato Nanji e la sua chitarra sono pronti a invadere spazi sconfinati, di solito concessi all’itinerante Experience Hendrix Tour dal 2002, contrassegnato da quel tratto inquieto, ‘demoniaco’ se inteso come incontro col Dio ‘Jimy’, pertanto non elimina la dote umana, ma la potenzia.
Il songwriter, chitarrista e voce degli Indigenous intinge il pennello della Fender Stratocaster nell’astuccio dei colori del blues-rock, lo passa sul foglio di Gray Skies e traccia la linea di fondo del quarto disco degli Indigenous: la arricchisce, ne ritocca i margini… e il talento inizia a sgorgare e Mato Nanji comincia a tracciare linee o contorni e a ‘riempirli’ secondo l’estro del momento, lo fa caricandoli puntigliosamente con lunghi assoli che entrano sottopelle da Stay Behind e I'm Missing You.
Da sotto la superficie chitarristica di Gray Skies si liberano brani perfettamente levigati nel blues/rock (On My Way, Don't Know Where To Go e Let It Shine) e dall’andamento musicale arguto e leggero, dove sale la melodia (deliziose Lonely Days, Hear My Voice e Healers), ed è altrettanto vero che la sua ‘poetica’ sia di una granitica coerenza e che, pur nella sua semplicità, Gray Skies risulta intrigante proprio per questa ricerca di una forma trasversale sul blues/rock.
La musica di Mato Nanji lega con una contemporaneità del rock densa e psichedelica, scolpita sulle tinte scure di Let's Carry On, dove emergono rivoli significanti di blues nei minuti di Both To Blame e conduce all'ultimo graffio di What You Runnin' From, ed ecco che Gray Skies, ancora una volta, si schiera nel sovraccarico rutilante della Fender Stratocaster.
Eppure è impossibile non restare affascinati dalla sua universalità, dalla sua capacità emozionale e dalla complessità del suo impatto emotivo.
L’ideale per lasciare sullo sfondo, sfocato, il brusio indistinto del quotidiano, quel gelido e distante sottofondo.