‘From the backwoods of East Texas’, ne va orgoglioso il bluesman
EJ Mathews, trasferitosi da Atlanta nei dintorni di Dallas, in una piccola città agricola, per lui cresciuto a country e blues era il passo ideale a un suono che ha poi poggiato su uno sfondo che copre la Lousiana e il Mississippi.
Indiscusso talento (ascoltate
Welcome to the Backwoods del 2015), torna con
King of the Barnyard, disco prodotto insieme a
Janky (il progetto di Scott Lindsey, chitarrista anche dei The 1969s), dove EJ Mathews gigioneggia, ammicca e seduce, ripetendo all’infinito quel gioco di ‘Yeah’, ma basta la deliziosa
Ain't Gon' Botha Nobody a garantirgli il diritto di accaparrarsi di un’identità propria nel blues del Delta Mississippi, e la ferma consapevolezza del proprio raro talento.
Elettro-acustico, King of the Barnyard deposita tracce bluesy intriganti (
Move Your Feet e
Sippin' White Lightnin') da ricomporre, nelle coordinate di un rock tipico del Sud americano, sì spuntato, ma molto accattivante in
Ej,
You Ugly,
I Love You Now More Than When I Said I Do e
When I Rise, delle alternanze melodiche portatrici di una nuova e personale proposta di interpretazione del blues.
Piace la ruvida e scura
Let the Rooster Crow come
Boogie in the Backwoods e
It's Crawfish Time, un disco nel quale la demarcazione presente/passato del blues, come quello del rock, viene valicata in continuazione alla ricerca di legami nell’attualità texana e tra le vite di singoli mortali senza grossi scrupoli anche tra
Who Got My Green e
Pray for Me (Prelude) e Pray for Me.
La ‘delicata’ bellezza finale di
I Sh-T Myself (The Birthday Song) non racconta dei vuoti interiori, ma lascia liberi questi vuoti per andare a riempirli e spiegarli fino in fondo.
La forza di King of the Barnyard.