BLACK MOUNTAIN PROPHET (Tales From The South)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  05/12/2016
    

Il frontman Jarrod England (lo ricordate nei Rufus Huff?) basta ad assicurarci di come sia in grado di esplorare le prerogative di tutte le sorgenti di luce del rock, la cui luminosità può essere diffusa, schermata, fatta rimbalzare dalle chitarre, divenendo inevitabilmente fonte preziosa di ombre anni ‘70 in Tales From The South, secondo disco dei Black Mountain Prophet registrato agli Studios di Nashville con la supervisione di Brodie Hutcheson (dei Gov't Mule).
Arrivano dal Kentucky, un quartetto inscritto nel cuore stesso del rock pronto a stimolare Feel Good Mama e incoraggiare il ricorso a una dimensione inaspettata del blues con l’armonica di Lay That Bottle Down, non ci coglie di sorpresa mantenendo Tales From The South dentro il flusso delle chitarre che si dipana anche nel rallentamento della ballata di Whiskey Don't Make Me Cry (acustico e riflessivo in Brandy), e se non lo avete ancora capito, il percorso dei Black Mountain Prophet è fatto di alti e bassi tra ‘Whiskey, Women and Redemption’.
Donne, e allora Milk Skin Woman, My Baby Don't Love Me e Where's My Woman non possono che riacutizzare un rock spigoloso che conduce verso un pendio assorbito nel nero tra dissolvenze alle chitarre e rivisitate in Bad Women e Front Porch Company, chiuse in una struttura circolare tra il rock classico e la psichedelia, tra metafore delle contraddizioni e passioni umane che ruotano con moto continuo su se stesse.
I Black Mountain Prophet dedicano molto spazio alle donne, un cantiere in continua evoluzione, dove per un pezzo che si monta, molti altri se ne sfasciano, fatto sempre di intarsi e rimandi al rock, tra intralci e dubbiose verità, nel finale con una Alone In The World che sembra il frutto che quantifica l'esistenza di Tales From The South, lo sconquasso emotivo di Mercy con le sue ramificazioni sul blues.
Un campo scivoloso e friabile, ma non per i Black Mountain Prophet.