Il frontman Jarrod England (lo ricordate nei
Rufus Huff?) basta ad assicurarci di come sia in grado di esplorare le prerogative di tutte le sorgenti di luce del rock, la cui luminosità può essere diffusa, schermata, fatta rimbalzare dalle chitarre, divenendo inevitabilmente fonte preziosa di ombre anni ‘70 in
Tales From The South, secondo disco dei
Black Mountain Prophet registrato agli Studios di Nashville con la supervisione di Brodie Hutcheson (dei Gov't Mule).
Arrivano dal Kentucky, un quartetto inscritto nel cuore stesso del rock pronto a stimolare
Feel Good Mama e incoraggiare il ricorso a una dimensione inaspettata del blues con l’armonica di
Lay That Bottle Down, non ci coglie di sorpresa mantenendo Tales From The South dentro il flusso delle chitarre che si dipana anche nel rallentamento della ballata di
Whiskey Don't Make Me Cry (acustico e riflessivo in
Brandy), e se non lo avete ancora capito, il percorso dei Black Mountain Prophet è fatto di alti e bassi tra ‘
Whiskey, Women and Redemption’.
Donne, e allora
Milk Skin Woman,
My Baby Don't Love Me e
Where's My Woman non possono che riacutizzare un rock spigoloso che conduce verso un pendio assorbito nel nero tra dissolvenze alle chitarre e rivisitate in
Bad Women e
Front Porch Company, chiuse in una struttura circolare tra il rock classico e la psichedelia, tra metafore delle contraddizioni e passioni umane che ruotano con moto continuo su se stesse.
I Black Mountain Prophet dedicano molto spazio alle donne, un cantiere in continua evoluzione, dove per un pezzo che si monta, molti altri se ne sfasciano, fatto sempre di intarsi e rimandi al rock, tra intralci e dubbiose verità, nel finale con una
Alone In The World che sembra il frutto che quantifica l'esistenza di Tales From The South, lo sconquasso emotivo di
Mercy con le sue ramificazioni sul blues.
Un campo scivoloso e friabile, ma non per i Black Mountain Prophet.